Il Sistema Solare: composizione e numero di pianeti
Il Sistema Solare è il nostro sistema planetario, l'unico ad oggi ad ospitare la vita come la conosciamo ma non solo. Più guardiamo all'esterno e più troviamo sistemi planetari diversi dal nostro.
Il Sistema Solare è un sistema planetario , e come tale è composto da oggetti di natura non stellare orbitanti intorno ad una stella . Questi corpi non stellari, almeno quelli finora conosciuti e relativi al nostro sistema planetario, sono i pianeti, gli asteroidi e i nanopianeti, i meteoroidi, le comete e la polvere interstellare. L'insieme di tutti questi corpi e dalla loro stella è definito come sistema stellare. Il nostro sistema, legato al Sole, è quindi il Sistema Solare.
Il Sistema Solare è l'insieme del Sole e degli astri (in particolare dei pianeti) che gravitano attorno ad esso, è la regione dello spazio nella quale il Sole esercita una attrazione predominante rispetto a quella delle altre stelle. Il Sistema Solare è quindi il sistema planetario nel quale viviamo, composto da otto pianeti e numerosi corpi minori che orbitano intorno ad una stella, il Sole (dal quale prende il nome), di poco più di 4 miliardi di anni e che durerà ancora dai 5 ai 7,5 miliardi di anni circa.
Family Portrait: i pianeti del Sistema Solare, tranne Mercurio e Marte, ripresi dalla sonda Voyager 1 il 14 febbraio 1990. Somma di 60 immagini. Crediti NASA
Nonostante si tratti del nostro sistema planetario, molte domande sono ancora in attesa di una risposta definitiva e questo nonostante il fatto che numerose sonde siano andate a spasso per il Sistema Solare in tempi più o meno recenti, analizzando un po' tutte le tipologie di corpo celeste a partire dai pianeti per arrivare sul Sole, sui asteroidi e comete e pianeti nani. Dubbi ci sono sulla nascita del Sistema Solare, sull'evoluzione, sulla formazione dei pianeti e dei satelliti per non parlare dei corpi minori. Oggi, studiando altri sistemi planetari, stiamo dando alcune risposte anche alle domande riguardanti il nostro. Lo studio dei corpi minori soprattutto, come asteroidi e comete, è considerato un aiuto molto importante per la comprensione delle informazioni sui materiali presenti nella nube di gas e polveri che, circa 4,5 miliardi di anni fa, ha dato origine al nostro sistema planetario. Questo perché questi corpi più piccoli hanno subito meno trasformazioni nel corso dei miliardi di anni, mantenendo più dei pianeti le caratteristiche iniziali. Anche lo spazio interplanetario, del resto, è pieno di residui con dimensioni che arrivano a frazioni di millimetro.
In alto è riportata la foto di famiglia scattata dalla Voyager 1 il 14 febbraio 1990. Da allora di foto simili ne sono state ottenute, e in particolare se ne segnalano tre ottenute da Solar Orbiter di ESA, Parker Solar Probe di NASA e STEREO, ancora di NASA (tre osservatori solari, quindi).
Sequenza ripresa dal Solar Orbiter il 18/11/2020.
Crediti: Esa / Nasa / Nrl / Solar Orbiter / SolOHI
I pianeti solari dal Solar Probe NASA il 7 giugno 2020.
Crediti: Nasa / Johns Hopkins APL / Naval Research Laboratory / Guillermo Stenborg e Brendan Gallagher
Stereo riprende il Sistema Solare il 7 giugno 2020. Crediti: Nasa / Stereo / Hi
La composizione e il "problema" Plutone
Posto nella periferia galattica, e precisamente nel Braccio di Orione della Via Lattea , il Sistema Solare è composto dal Sole, che ne rappresenta la stella centrale, e da una serie di corpi celesti che gli orbitano intorno e che in base alla nomenclatura ufficiale della IAU (International Astronomical Union) possono essere riassunti come segue:
- otto pianeti: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno;
- cinque pianeti nani: Cerere, Plutone, Eris, Makemake e Haumea (gli ultimi quattro definiti "plutoidi"), più uno in fase di definizione come Igiea;
- più di 160 satelliti;
- milioni di asteroidi;
- miliardi di comete;
- un numero indecifrato ed elevatissimo di meteoroidi.
I corpi minori, soprattutto, possono avere una origine molto diversa, provenendo anche da zone esterne al Sistema Solare e da altri sistemi planetari. I casi più eclatanti sono quelli delle comete (presunte) 1I/'Oumuamua e 2I/Borisov, che nel primo ventennio dei Duemila hanno destato molto interesse mediatico, ma in realtà è presente una intera popolazione di asteroidi provenienti dall'esterno e che oramai si sono accasati in orbite comprese tra Giove e Nettuno . Il primo di questi oggetti è stato scoperto nel 2018 ed è noto come Ka'epaoka'awela, ma al 2020 esistono almeno diciannove oggetti extra-solari. Sono asteroidi Centauri, una classe che a volte si comporta come le comete e le cui orbite non possono essere spiegate o previste con perfezione, derivando da orbite che - 4.5 miliardi di anni fa - erano addirittura perpendicolari al piano dell'eclittica (F.Namouni et al. An interstellar origin for high-inclination Centaurs, Monthly Notices of the Royal Astronomical Society 2020). Le stime dei lavori più recenti parlano di circa sette oggetti interstellari che entrano nel Sistema Solare ogni anno (per lo più asteroidi mentre le comete sono più rare), seguendo orbite persino prevedibili che renderebbero possibile un randez-vous con una sonda appositamente lanciata. Si tratta di un campo di ricerca del tutto nuovo che ha già partorito molte idee come il Progetto Lyra e la missione Comet Interceptor di ESA, ad esempio. Si tratta di missioni che possono essere di due tipologie: pianifica e attendi oppure lancia e attendi, a seconda di dove la sonda dovrebbe attendere il corpo da studiare (Interstellar Objects in the Solar System: 1. Isotropic Kinematics from the Gaia Early Data Release 3 arXiv). A scaraventare fuori da un sistema planetario dei corpi minori possono essere interazioni tra i corpi planetari del sistema stesso ma anche il passaggio ravvicinato tra stelle: stelle che si vengono a trovare a meno di 250 UA di distanza, infatti, possono strappare tanto materiale dai propri sistemi, soprattutto comete data la maggior distanza dalle stelle centrali (Significant interstellar object production by close stellar flybys). Questi oggetti, peraltro, possono essere anche abbastanza comuni, se è vero che all'interno della Nube di Oort gli oggetti interstellari possono essere più numerosi di quelli del Sistema Solare. Questo almeno sostiene uno studio del 2021, ancora non avallabile dal punto di vista osservativo a causa dell'insufficienza tecnologica. Una risposta potrebbe giungere dalla Transnettunian Automated Occultation Survey (TAOS II) del 2022, specificatamente prevista per lo studio delle comete più remote (Monthly Notices of the Royal Astronomical Society - “Interstellar objects outnumber Solar system objects in the Oort cloud” - A. Siraj).
Anche - forse soprattutto - la zona oltre Nettuno, quella occupata dagli oggetti Trans-Nettuniani (TNO - Trans Neptunian Objects) è territorio di scoperte sempre nuove. Ad esempio, i dati della Dark Energy Survey (DES) hanno portato alla scoperta di più di trecento oggetti di questo tipo a inizio 2020. Sebbene l'obiettivo di DES sia la comprensione della natura della energia oscura tramite immagini ad alta precisione del cielo australe, proprio il fatto di riprendere immagini così dettagliate consente di scoprire con molta facilità oggetti anche deboli. I primi quattro anni di survey hanno consentito di ottenere un dataset di sette miliardi di "punti", dai quali andare a rimuovere oggetti fissi o già noti. Ridotta la lista a 22 milioni di oggetti si è poi passati a 400 candidati e infine a 316 TNO. A oggi si conoscono circa tremila TNO (Pedro H. Bernardinelli et al, Trans-Neptunian Objects Found in the First Four Years of the Dark Energy Survey, The Astrophysical Journal Supplement Series - 2020).
Immagini di 2020 CD3. Crediti @WierzchosKacper Twitter
Il conteggio non tiene neanche conto di orbite transitorie: ad esempio la Terra possiede una popolazione di "lune transitorie" formata da un sottoinsieme di NEO (Near Earth Objects) che vengono raccolti temporaneamente dalla gravità terrestre assumendo orbite terrestri (TCO - Temporarily Captured Orbiters). Il concetto di TCO è nato nel 2006 con la scoperta e la caratterizzazione di RH120, un oggetto con diametro tra 2 e 3 metri in orbita solare il quale, ogni venti anni circa, si avvicina al sistema Terra-Luna e viene temporaneamente acquisito dal nostro pianeta. Nel 2006 l'oggetto orbitò il nostro pianeta per undici mesi. Ulteriore peso è stato poi aggiunto da 1991 VG e da EN 130114, le cui scoperte hanno consentito di scindere la popolazione di TCO in due gruppi principali, quelli che compiono almeno una rivoluzione terrestre durante la cattura e quelli che invece si fermano meno di un giro. Entrambi potrebbero essere interessanti per future missioni spaziali di impegno economico minore, come i CubeSat. Il campione aumenta nel 2020 con 2020 CD3, scoperto dalla Catalina Sky Survey il 15 febbraio e rappresentante un "satellite terrestre" da circa tre anni al momento della scoperta. La sua dimensione è stata stimata tra 1.9 e 3.5 metri e anche questo corpo celeste è destinato a liberarsi (Minor Planet Center - “MPEC 2020-D104 : 2020 CD3: Temporarily Captured Object”). Osservazioni di oggetti di questo tipo potrebbero essere svolte dal Large Synoptic Survey Telescope (LSST), di prossima installazione in Cile (Grigori Fedorets et al. Discovering Earth's transient moons with the Large Synoptic Survey Telescope, Icarus - 2019). Molti TCO anziché liberarsi dall'abbraccio terrestre finiscono per cedere alla gravità, schiantandosi al suolo. Un esempio è stato rinvenuto nel 2014, con un bolide osservato in ingresso, mentre un secondo esempio è un altro bolide del 2019, osservato indirettamente tramite immagini ottenute da più zone (P. M. Shober et al. Identification of a Minimoon Fireball, The Astronomical Journal - 2019).
Mappa delle osservazioni dell'evento DN160822_03 in Australia. In arancione le tracce del bolide. Crediti The Astronomical Journal (2019)
Ragionando a fasce è possibile distinguere, intorno alla stella centrale e muovendosi dalle zone più vicine a quelle più remote:
- fascia dei pianeti rocciosi, all'interno della quale è posta anche la "fascia di abitabilità"
- fascia principale degli asteroidi, sede della maggior parte dei corpi asteroidali e posta tra Marte e Giove
- fascia dei pianeti giganti, gassosi o ghiacciati, che si estende fino alle 30 UA di distanza dal Sole;
- fascia di Edgeworth-Kuiper, o più comunemente di Kuiper, nella quale sono accolti plutoidi e nuclei cometari di breve periodo e che si estende fino a 50 UA dal Sole;
- nube di Oort, sfera ancora teorica sebbene decisamente accettata che comprende i nuclei cometari di lungo periodo e che dovrebbe estendersi fino a 100.000 UA di distanza dal Sole.
Le fasce del Sistema Solare. Le distanze non sono in scala. Fonte GMPE
Plutone, i plutoidi e il passaggio da Planet X a Planet Nine
La scoperta di Plutone ha una storia affascinante che ripercorriamo nella scheda del pianeta nano, alla quale rimandiamo. Ai nostri fini è invece interessante ripercorrere la storia di "pianeta" di Plutone, per comprendere come si sia arrivati a un elenco di otto pianeti privo del corpo scoperto nel 1930.
Con il notevole ridimensionamento di Plutone, si riaprì la caccia all'eventuale pianeta X del Sistema Solare in maniera più o meno credibile. Su tutti i progetti portati avanti, il più credibile era quello di Joseph L. Brady del Laurence Laboratory dell'Università di California, svolto negli anni '60 e '70. Il lavoro prendeva spunto dalle osservazioni e dai dati orbitali presi durante i passaggi della cometa di Halley durante i passaggi del 1682, del 1759, del 1835 e del 1910 tenendo anche conto di dati più grezzi riguardanti i passaggi del 1607, del 1531 e del 1456 e di dati ancora più grezzi, di origine cinese, fino a giungere al passaggio dell'anno 295. Sottraendo gli effetti gravitazionali del Sole e dei nove pianeti fino ad allora considerati tali, e quindi anche di Plutone, Brady giunse a forti discrepanze tra i passaggi attesi e quelli effettivamente verificatisi, dovuti forse ad un pianeta posto oltre l'orbita di Plutone. Dal 295 al 1835, i resti per i tempi di passaggio al perielio lasciavano apparire un ciclo di circa 500 anni e Brady interpretò questo periodo come il periodo di rivoluzione del Pianeta X. In base a questa supposizione, i dati del pianeta prevedevano una distanza di 65 UA dal Sole, periodo di 464 anni, semiasse maggiore di 59,94 UA dal Sole, eccentricità di 0,07, inclinazione di 120°, massa quasi pari a quella di Giove.
Proprio gli ultimi due elementi suscitarono scalpore: un pianeta così massiccio avrebbe dovuto essere stato già scorto. Brady, dai calcoli, indicò la presenza di questo pianeta nella costellazione di Cassiopea con magnitudine intorno alla 13-14. La survey osservativa non diede alcun esito, ad indicare una massa sovrastimata e quindi una magnitudine molto minore oppure un errore nel calcolo della posizione. Oppure, semplicemente, il pianeta X non esisteva affatto. Una seconda ricerca riuscì a scendere ad oggetti 100 volte meno luminosi rispetto al pianeta di Brady, ma anche qui niente da fare per la ricerca. Ai fallimenti osservativi seguì la smentita teorica da parte del cinese T. Kiang: i calcoli di Brady erano errati e le osservazioni dei passaggi cometari non richiedevano alcun pianeta aggiuntivo per essere spiegati.
Era il 1977 quando Charles Kowal scoprì un asteroide interessante per dimensione e distanza. Con un diametro di circa 200 chilometri e con una orbita compresa tra quella di Saturno e quella di Urano, l'asteroide - battezzato 2060 Chirone, era il chiaro indizio della presenza di molti corpi posti a grandi distanze dal Sole. Fino al 1992 tuttavia neanche le sonde Voyager riuscirono a trovare altri corpi simili. Nel 1992 invece, l'introduzione dei sensori CCD per le riprese astronomiche aumentò notevolmente la capacità di penetrare più profondamente l'universo fino a magnitudini molto deboli, il che consentì a David Jewitt e Jane Luu, dall'osservatorio di Mauna Kea, di scoprire un oggetto di magnitudine 23,5 nella costellazione dei Pesci, posto ad una distanza compresa tra 37 e 59 UA dalla Terra. L'oggetto fu battezzato 1992 QB1 (oggi Albione) ma aveva ancora un'orbita del tutto indeterminabile e molto ambigua. Solo dopo qualche mese si capì che l'orbita era pressoché circolare, poco inclinata e di senso diretto, esterna a Nettuno ma con afelio un po' inferiore a quello di Plutone. L'oggetto fu chiamato Smiley ed è il primo oggetto della cintura ipotizzata da Kuiper: proprio per questo fu chiamato Kuiper Belt Object (KBO). Da questo oggetto prende origina la denominazione di oggetto "cubewano" (da QB).
La presenza di una simile zona era stata già predetta più volte: Gerard Kuiper nel 1951, Frederick Leonard nel 1930 e Kenneth Edgeworth nel 1943 sostennero la presenza di una seria molto numerosa di corpi posti in orbita oltre Nettuno. Kuiper si spinse ad osservare che oltre Plutone avrebbe dovuto esserci una fascia occupata da oggetti dai quali originano le comete di breve periodo (con periodo inferiore ai 200 anni). Anche la teoria andò a favore di una simile previsione: la fascia fu spiegata matematicamente negli anni Sessanta da Fred Whipple e nel 1980 da Julio Fernandez. In dieci anni da Smiley gli oggetti scoperti salirono ad un migliaio, e tutti posti nella regione che l'Unione Astronomica Internazionale non tardò a chiamare Cintura di Kuiper, spesso indicata con la dicitura Fascia di Edgeworth-Kuiper. Il suo confine esterno viene assegnato a 100 UA dal Sole. I suoi membri vengono chiamati KBOs oppure TNOs (Trans-Neptunian Objects). A questa classe di oggetti appartengono Varuna (scoperto il 28 novembre 2000, diametro 740 km), Quaoar (4 giugno 2002, 1250 chilometri), 2003EL61, meglio noto come Haumea,scoperto nel 2003 e poco più piccolo di Plutone sebbene sia molto più ovale nella forma.
A marzo 2004 si annuncia la scoperta, avvenuta il 14 novembre 2003, dell'oggetto 2003 VB12, molto più grande degli altri finora trovati. La stampa parlò subito di decimo pianeta: l'oggetto fu scoperto da Michael Brown, Chad Trujillo, David Rabinowitz attraverso lo Schmidt da 122 cm di Monte Palomar e fu battezzato Sedna. Ad impressionare era la sua notevole distanza. Con un diametro stimato in 1.750 chilometri, l'orbita di Sedna era compresa tra 76 UA in perielio e ben 900 UA in afelio. Al momento della scoperta Sedna si trovava a 97 UA, in avvicinamento, ed avrebbe raggiunto il perielio nel 2075-2076. La distanza raggiungibile rendeva Sedna troppo distante per appartenere alla Cintura di Kuiper, ma era ancora troppo vicina per appartenere alla Nube di Oort, una sacca di nuclei cometari predetta dall'astronomo Jan Oort. Inoltre l'orbita si discostava poco dall'eclittica, il che giocava a favore della Fascia di Kuiper e non di una banda sferica come la Nube di Oort. Si assegnò quindi Sedna alla Nube di Oort interna, una regione relativamente poco spessa posta sul piano dell'eclittica ed estesa dalla Fascia di Kuiper alla Nube di Oort esterna, sferica. L'orbita di Sedna viene percorsa in 11.000 anni. Le dimensioni di Sedna, inferiori a quelle di Plutone, hanno comunque fatto abbandonare ben presto la richiesta di eleverlo a pianeta.
Rappresentazione delle orbite di Plutone, Sedna e Eris
Contrariamente a Sedna, la scoperta di un altro oggetto passò molto in sordina. Si tratta di 2005 FY9, ribattezzato dapprima Easterbunny e poi designato ufficialmente Makemake. Grande circa 3/4 del diametro di Plutone e con una orbita del tutto esterna a quella di Nettuno, si tratta dell'unico oggetto maggiore della Fascia di Kuiper a non avere satelliti ed è strano che, data la sua brillantezza, sia stato scoperto dopo molti altri oggetti. Una motivazione è l'elevata inclinazione della sua orbita rispetto all'eclittica, visto che le ricerche vengono effettuate solitamente entro una ristretta fascia di declinazione intorno al percorso del Sole. Al momento della sua scoperta, infatti, Makemake era nel punto di maggior distanza dall'eclittica, nella costellazione della Chioma di Berenice. Durante le ricerche di Tombaugh riguardanti Plutone, Makemake era abbastanza brillante e prossimo all'eclittica da poter essere scorto dalle lastre, tuttavia si trovava tra Toro e Auriga e brillava di magnitudine 16, troppo vicino alla Via Lattea e quindi confondibile tra migliaia di stelle. Makemake è un classico KBO di tipo cubewano. Dal nome del primo oggetto della Fascia di Kuiper, che come si ricorda è 1992 QB1 , gli oggetti classici di questa Fascia con una orbita sufficientemente lontana da quella di Nettuno e quindi stabile nel lungo periodo sono detti cubewani. I plutini sono invece i KBO in orbita di risonanza 2:3 con Nettuno e possono attraversare l'orbita del pianeta senza scontrarvisi o subire notevoli variazioni orbitali. Non si tratta, tuttavia, delle uniche distinzioni all'interno della macrocategoria dei KBO, tanto che la comunità astronomica si è prodigata nella classificazione in quattro aree.
- Oggetti in risonanza: Sono i KBO la cui orbita è legata a quella di Nettuno, e dei quali il primo esempio è proprio Plutone. La risonanza è di 2:3, quindi per due orbite di questi corpi, Nettuno ne compie tre. Questi corpi sono chiamati plutini ed attualmente sono più di cento. Le loro orbite sono ellittiche e molto inclinate rispetto a quelle dei pianeti, ma comunque generalmente comprese entro i 20-25°.
- Oggetti del disco diffuso: Le orbite di questi oggetti sono molto eccentriche e molto inclinate. Non sono in risonanza con Nettuno ma nel lungo periodo possono risentire della sua influenza gravitazionale fino a venir proiettati su orbite più interne o esterne. Si ritiene che i Centauri come Chirone o Pholus, posti prevalentemente tra i pianeti giganti, siano proprio oggetti di questa categoria costretti a migrare dall'influenza di Nettuno.
- KBO classici o cubewani: Corpi compresi tra 42 e 48 UA, con orbite quasi circolari. Sono i cosiddetti cubewani, in onore del primo oggetto appartenente a questa categoria alla quale appartengono, tra gli altri, Varuna, Haumea, Makemake e Quaoar.
- Oggetti isolati o del disco diffuso esteso: I corpi di questa categoria presentano distanze superiori alla media dei KBO tanto da apparire "isolati" dall'influenza di Nettuno e della Cintura di Kuiper. La distanza è tale che alcuni preferiscono parlare di Nube di Oort interna. Il maggior rappresentante è Sedna.
Il ruolo di pianeta svolto fino ad allora da Plutone iniziò a vacillare con la scoperta di Sedna, fino a cadere del tutto con la scoperta del giorno 8 gennaio 2005 ad opera di Michael Brown, Chad Trujillo e David Rabinowitz, annunciata il 29 luglio 2005. L'oggetto era 2003 UB313, più grande di Plutone , con una distanza di 97 UA, con eccentricità doppia di quella di Plutone e con una inclinazione sull'eclittica di 44°. Il diametro stimato era, anche se per poco, superiore a quello di Plutone, pari più o meno a 2.400 chilometri. Il nome temporaneo fu indicato in Xena, ma nel 2006 l'oggetto fu chiamato ufficialmente Eris. Eris possiede un satellite, noto come Dysnomia, del diametro di circa 250 chilometri. La cosa che stupì di Eris fu soprattutto una variazione spettroscopica consistente in una diminuzione di metano. Alla sua distanza non poteva essere l'effetto del Sole, quindi si è pensato ad una attività criovulcanica indotta da meccanismi ancora ignoti.
Ciò che conta, a questo punto, è che con la scoperta di un corpo più grande di Plutone insieme a tanti altri corpi simili o più piccoli si prese coscenza che, con tecniche osservative sempre migliori, si sarebbe andati incontro a scoprire tantissimi corpi celesti con le caratteristiche di Plutone. Si decise così di rivedere il concetto di "pianeta ", da definire nella Conferenza di Praga dell'agosto 2006.
Il numero dei pianeti del Sistema Solare è passato quindi attraverso varie fasi:
Numero di pianeti nella storia
Periodo |
Numero |
Note |
Antichità |
7 |
Pianeti visibili, Sole e Luna. Sette era il numero perfetto, quindi i pianeti dovevano essere sette |
Sistema Copernicano |
6 |
Sole e Luna vengono esclusi, ma viene inserita la Terra finora considerata speciale |
1781 |
7 |
William Herschel scopre Urano |
1801 |
8 |
Viene scoperto Cerere, considerato pianeta. Fu Herschel a proporre di chiamarlo "asteroide" per il suo aspetto puntiforme |
1833 |
11 |
John Herschel introduce tra i pianeti Cerere, Giunone, Pallade e Vesta |
1846 |
12 |
Viene scoperto Nettuno |
1853 |
8 |
Viene coniato il termine pianeta minore ad indicare i corpi minori |
1930 |
9 |
Viene scoperto Plutone |
2006 |
8 |
Declassamento di Plutone in seguito a definizione rinnovata di pianeta |
Nel 2006 viene eletto un comitato per decidere se mantenere Plutone tra i pianeti maggiori. Il comitato è presieduto dall'astrofisico Owen Gingerich e si riunisce a Parigi prima di raggiungere Praga. Dapprima si prende in considerazione l'influenza gravitazionale esercitata su altri corpi: Plutone si riteneva avesse una massa simile a quella terrestre, in grado di influenzare Nettuno, ma i nuovi calcoli erano tutti contro questa teoria visto che Plutone ha una massa molto ridotta e non riesce ad influenzare Nettuno. Si prese poi in considerazione la sfericità del corpo celeste, dovuta al fatto che la massa è tale da far si che la materia si disponga a uguale distanza dal centro (equilibrio idrostatico). Ovviamente in questi termini Plutone poteva essere considerato un pianeta, ma come lui lo erano centinaia di altri corpi del Sistema Solare come, ad esempio, la Luna. Si pensò di creare una distinzione tra pianeti principali e una nuova categoria che, in onore di Plutone, fosse chiamata "plutoni", con discriminante il periodo di rivoluzione inferiore ai 200 anni. In tali circostanze Plutone non sarebbe stato più un pianeta maggiore, ma Cerere si. Si decise allora di inserire la categoria dei pianeti nani. Le prime risposte elaborate dal Congresso dicevano che:
- Plutone è un pianeta;
- I pianeti sono 12, perché comprendono i nove classici più Cerere, Eris e Caronte. Caronte, satellite di Plutone, era da considerare un pianeta visto che il baricentro dell'orbita dei due corpi si trova nello spazio, a configurare un "pianeta doppio".
La soluzione sembrava insoddisfacente, allora si giunse alla attuale definizione di pianeta . I pianeti sono quindi otto, e tutti gli altri oggetti orbitanti intorno al Sole sono considerati piccoli corpi del Sistema Solare.
Durante la stessa Conferenza, inoltre, fu esplicitamente sostenuto che "Plutone è un pianeta nano e lo si riconosce come prototipo di una nuova categoria di oggetti trans-nettuniani".
A inizio 2016 il moto anomalo di sei oggetti della Fascia di Kuiper fa ipotizzare la presenza di un nono pianeta per il Sistema Solare: un mondo gassoso, gigante, distante 20 volte la distanza di Nettuno dal Sole e con un periodo orbitale, quindi con un anno, compreso tra 10 mila e 20 mila anni terrestri. Una suggestione, un pensiero che riporta indietro nel passato ma che oggi ha soltanto lo 0.7% di possibilità di essere reale. Il movimento dei corpi KBO sarebbe - per i ricercatori del Caltech Konstantin Baytgin e Mike Brown, difficilmente spiegabile con altre cause: i modelli porterebbero dritti alla presenza di un pianeta come quello descritto, ad oggi chiamato Planet Nine. Da quel giorno, tuttavia, molte cose sono cambiante e alcuni studi sembrano andare a favore del pianeta mentre altri, sicuramente meno plateali ma forse più realistici, sembrano negarne l'esistenza.
Secondo uno studio di metà 2018, annunciato al 232° Meeting dell'American Astronomical Society, le anomalie nelle orbite della Fascia di Kuiper sarebbero ben spiegabili senza tirare in ballo un ulteriore pianeta ma limitandosi a considerare gli "spintoni" che si verificano tra i corpi stessi e i detriti spaziali nel sistema esterno. Un effetto di gravità collettiva che di per sé basterebbe a giustificare tutta l'acqua che finora è stata portata al mulino di Planet Nine. Queste interazioni, peraltro, potrebbero innescare effetti cumulativi che ciclicamente determinerebbero l'aumento di comete scaraventate verso l'interno del Sistema Solare, il che andrebbe a provocare fenomeni come quello che ha determinato l'estinzione dei dinosauri. Al tempo stesso, un altro oggetto battezzato 2015 BP519 sembra risentire dello stesso effetto anomalo di una massa compatibile con il fantomatico Planet Nine (Discovery and Dynamical Analysis of an Extreme Trans-Neptunian Object with a High Orbital Inclination - arXiv (J. C. Becker, T. Khain et al) mentre poco dopo le caratteristiche stesse di Planet Nine iniziano a essere rivisitate: i nuovi parametri portano a una massa di 10 masse terrestri, un raggio pari a 3,7 raggi terrestri, una temperatura di -226°C e una dinamica dominata dal raffreddamento del nucleo. La luce riflessa dal Sole contribuisce soltanto in minima parte al totale della radiazione che potremmo captare, che dovrebbe provenire invece fortemente da una sorgente interna di circa 1000 volte più potente. La magnitudine è stimata tra 20 e 22 in visuale, 11 per l'infrarosso. Lo studio mostra anche come, con le survey finora portate avanti, sia stato in effetti molto difficile scovare pianeti con masse inferiori alle 20 masse terrestri. Il 2019, invece, porta a modelli meno spettacolari ma sicuramente più probabili, le "strane" orbite di alcuni Kuiper Belt Objects (KBOs) potrebbero essere spiegate con la combinazione degli effetti gravitazionali di tanti oggetti più piccoli, del tutto simili agli altri KBO. In tali circostanze il disco che circonda il Sistema Solare sarebbe pieno di piccoli corpi ghiacciati. Non è la prima volta che un modello ipotizza la forza del disco di oggetti minori, ma è invece la prima volta che Planet Nine viene scalzato da un modello che tiene conto anche dell'influenza degli otto pianeti solari. In questo modo le orbite particolarmente ellittiche di una trentina di Trans-Nettutian Objects (TNOs) non richiedono la necessità di un nono pianeta (link all'articolo su AstronomiAmo). Una conferma all'effetto di gravitazione cumulativa viene anche nel 2020, con quella che forse è la simulazione più precisa mai posta in piedi al riguardo. Da una situazione di partenza "normale", con i corpi celesti distanti disposti sul disco così come nati, l'effetto cumulativo della gravità ha disposto autonomamente i corpi minori nella situaziona osservativa di oggi. Il risultato è stato raggiunto ipotizzando una massa totale, per i corpi distanti e ghiacciati, pari a circa 20 masse terrestri (Alexander Zderic et al, Giant-planet Influence on the Collective Gravity of a Primordial Scattered Disk, The Astronomical Journal - 2020)
Ciò che potrebbe essere un nono pianeta , tra l'altro, potrebbe anche essere un buco nero primordiale, andando a spingere verso soluzioni sempre più esotiche in grado di spiegare le anomalie gravitazionali e l'eccesso di lente gravitazionale . Questi buchi neri, antichi e relativamente piccoli, emersero dopo il Big Bang come risultato di fluttuazioni di densità - secondo i modelli - ma ancora non sono mai stati rinvenuti. Uno di questi, secondo un team della Durham University, potrebbe trovarsi proprio a una distanza tra 300 e 1000 UA da noi. Le probabilità di una cattura di un pianeta sono quindi le stesse della cattura di un buco nero primordiale di massa pari a cinque masse terrestri e raggio di circa cinque centimetri. Sono proprio queste misure a rendere tuttavia improbabile provare l'evento visto che un oggetto simile avrebbe una temperatura di 0.004 Kelvin , inferiore alla radiazione cosmica di fondo . Una possibilità potrebbe essere l'osservazione di segnali di annichilazione da microaloni di materia oscura intorno al buco nero (anche questi mai visti) (Jakub Scholtz, James Unwin. What if Planet 9 is a Primordial Black Hole? arXiv:1909.11090v1) ma un altro possibile test viene proposto a metà 2020 dalla Harvard University e dalla Black Hole Initiative (BHI) basandosi su possibili flare derivanti dall'incontro con comete, o nuclei cometari data la distanza. I piccoli corpi celesti vedrebbero un innalzamento della temperatura che li indurrebbe allo scioglimento prima di finire distrutti marealmente dal buco nero stesso. Si tratterebbe dell'unico modo in cui un buco nero potrebbe "emettere" (apparentemente) radiazione. Certo, si tratta di un metodo di prova abbastanza particolare visto che occorrerebbe attendere un evento simile ma anche una survey in grado di accorgersi del flare, ma c'è da dire che può valere sia per il fantomatico Planet Nine sia per buchi neri esterni al Sistema Solare in generale (Siraj et al., Searching for Black Holes in the Outer Solar System with LSST. arXiv).
Dopo diversi anni, tuttavia, questo pianeta non mostra alcuna traccia il che porta a ipotizzare una più probabile coincidenza statistica, basata su un campione piccolo di appena sei elementi tra l'altro molto scuri e difficili da osservare. Uno strumento maggiormente sensibile alla direzione di puntamento potrebbe andare a insistere sempre nella zona, selezionando gli oggetti in quella esclusiva direzione creando così una sovrapopolazione del tutto apparente (arXiv.org - “No Evidence for Orbital Clustering in the Extreme Trans-Neptunian Objects” - K.J. Napier et al.)
Dimensioni del Sistema Solare
Lo spazio presente all'interno del Sistema Solare è definito mezzo interplanetario ed è composto di gas e polvere in continua interazione con il vento solare, uno sciame di particelle emesse dal Sole che viaggia nel Sistema Solare alla velocità di svariate centinaia di chilometri ogni secondo. Proprio l'effetto di questo vento stellare serve a definire i confini della così detta eliosfera. Laddove il vento solare riesce a produrre effetti con la sua presenza, si parla ancora di eliosfera. Il confine che segna l'ultima distanza raggiunta dal vento solare si chiama eliopausa oppure termination shock. Oltre questa distanza ha inizio il mezzo interstellare (che nel nostro caso è rappresentato dalla Local Fluff), raggiunto dalle sonde Voyager lanciate nel 1977.
L'eliosfera è la regione dello spazio nella quale la densità di energia del vento solare è superiore a quella del mezzo interstellare.
L'eliopausa è il limite convenzionale dell'eliosfera, lungo il quale la densità di energia del vento solare è in equilibrio con quella del mezzo interstellare.
L'eliosfera, quindi, rappresenta tutto il campo raggiunto dal vento solare. Gli scienziati che elaborano i dati della sonda Voyager 2 hanno osservato prorpio questa bolla di vento solare che circonda il sistema solare, descrivendone una forma non circolare ma schiacciata che risente, peraltro, dell'attività solare. Gli scienziati riportano come la Voyager 2 abbia infatti attraversato questo confine più vicino al Sole di quanto ci si attendesse, suggerendo quindi che l'eliosfera in questa regione sia stata spinta avanti, più vicina al Sole, da un campo magnetico interstellare più forte di una attività solare evidentemente più limitata nel periodo. Queste scoperte aiutano a costruire una immagine di come il Sole interagisca con il mezzo interstellare circostante, il quale ultimo si è dimostrato decisamente più potente rispetto alle attese: osservando i raggi cosmici, infatti, è stato possibile misurare la pressione totale delle particelle nella regione esterna del Sistema Solare ottenendo un valore decisamente superiore a quanto ipotizzato fino al momento dell'analisi dei dati delle Voyager. La motivazione risiede nella compartecipazione di forze che nei modelli iniziali non erano state previste. E' stata utilizzata una regione di interazione determinata dall'attività solare, coesa a formare un fronte gigante e una onda di plasma sospinta dai campi magnetici. Una di queste onde ha raggiunto l'eliopausa nel 2012, sotto gli occhi della Voyager 2, e quattro mesi dopo gli scienziati hanno potuto osservare una riduzione analoga nei dati della Voyager 1, appena oltre il confine del Sistema Solare. Conoscere la distanza tra i veicoli ha consentito di calcolare la pressione nell'eliosfera e la velocità del suono. La variazione osservata nei raggi cosmici era differente: per la Voyager 2 il numero è diminuito in tutte le direzioni all'interno del Sistema Solare mentre per la Voyager 1, esternamente, diminuivano soltanto i raggi cosmici galattici perpendicolari al campo magnetico della regione.
Le Voyager, una nell'eliosfera e una appena oltre, hanno misurato particelle solari e raggi cosmici nella Global Merged Interaction Region a distanza di quattro mesi l'una dall'altra. Le misurazioni hanno consentito di calcolare la pressione totale nell'eliosfera e la velocità del suono nella regione. Crediti Goddard Space Flight Center
Quanto è grande l'eliosfera e, quindi, quanto è grande il Sistema Solare? Nello spazio non ci sono confini precisi, come ha avuto modo di appurare proprio la sonda Voyager, quindi non si può procedere ad una stima accuratissima delle dimensioni né dell'eliosfera né del confine più remoto della zona di influenza gravitazionale, che dovrebbe essere segnato dal bordo esterno della Nube di Oort, peraltro ancora tutta da dimostrare in termini di esistenza.
Mappa 3D dell'eliosfera.
Crediti Los Alamos National Laboratory
La prima mappa tridimensionale dell'eliosfera giunge nel 2021 dal Los Alamos National Laboratory sulla base dei dati di IBEX (Interstellar Boundary EXplorer) della NASA, satellite che rileva particelle provenienti dal bordo tra Sistema Solare e spazio interstellare. Per creare la mappa è stato utilizzato il vento solare e le collisioni con il vento interstellare, le quali danno origine a atomi neutri energetici (ENA). Nella zona di collisione si registra infatti un aumento di ENA e il segnale del vento solare varia in intensità. Lo stesso pattern può essere osservato nel segnale ENA di ritorno, dopo un viaggio da due a sei anni in base all'energia degli atomi e proprio la differenza di tempo consente di calcolare la distanza della zona di collisione (Astrophysical Journal - “A Three-dimensional Map of the Heliosphere from IBEX” - Daniel B. Reisenfeld et al.)
Le misurazioni dello strumento SWAP della New Horizons della NASA - prese cinque anni dopo il fly-by di Plutone - hanno consentito di derivare la densità dell'idrogeno neutro nel terminal shock, riscontrando 0.127 particelle per centimetro cubo, cioè 120 atomi di idrogeno in uno spazio di un litro di latte, confermando quanto misurato nel 2001 dalla Voyager 2 a 4 miliardi di miglia di stanza. Dopo i dati delle Voyager, i numeri sono comunque stati variati nel tempo in base a quanto riportato dalla Ulysses della NASA, stimando 85 atomi nello stesso spazio. La New Horizons ristabilisce il numero misurato dalla Voyager, il che ha senso anche perché la sonda Ulysses si trovava molto più vicina al Sole, dove gli ioni captati sono più rari e le misurazioni più incerte. La nuova misurazione può aiutare a spiegare il "nastro IBEX", una fascia di particelle energetiche proveniente dal bordo anteriore dell'eliosfera osservata dal satellite IBEX della NASA. La maggior densità misurata dalla New Horizons ci dice che il Sole si trova in una zona più densa dello spazio interstellare e può spiegare le osservazioni di IBEX (P. Swaczyna et al. Density of Neutral Hydrogen in the Sun's Interstellar Neighborhood, The Astrophysical Journal - 2020).
La Voyager 2 ha fatto ingresso nel mezzo interstellare, raggiungendo la Voyager 1 (passata nel 2013), il giorno 5 novembre 2018, ingresso avvenuto a 119.7 UA di distanza dal Sole (contro i 122.6della Voyager 1) testimoniato da una impennata nella densità del plasma rilevato e quindi dal passaggio da un plasma caldo e più rarefatto a uno più freddo e compatto. Il segnale ha anche avvalorato l'ipotesi per la quale il passaggio dal vento solare al mezzo interstellare sia graduale: il confine è netto. Il passaggio delle due sonde Voyager testimonia della quasi perfetta sfericità dell'eliosfera. Un mistero che resta è quello del campo magnetico visto che contro ogni aspettativa la direzione dello stesso non è cambiata all'attraversamento della'eliopausa. La Voyager 2 ha impiegato ben 80 giorni ad attraversare la barriera magnetica dell'eliopausa, contrariamente alla sonda gemella che ha impiegato un solo giorno (Plasma densities near and beyond the heliopause from the Voyager 1 and 2 plasma wave instruments, Nature Astronomy - 2019). Non solo le Pioneer e le Voyager, però, hanno ottenuto dati circa l'eliosfera più esterna visto che anche il Solar Wind Around Pluto (SWAP) installato sulla New Horizons ha potuto misurare - in chiave più moderna - importanti grandezze. SWAP, infatti, raccoglie quotidianamente informazioni sul vento solare e sugli ioni interstellari dall'esterno, creati quando il materiale neutro proveniente dallo spazio interstellare entra nel Sistema Solare e viene ionizzato dalla radiazione stellare o dallo scambio di carica con ioni solari. SWAP ha misurato un rallentamento del vento solare all'aumentare della distanza, laddove si incontra una quantità crescente di materiale interstellare. Lo strumento della New Horizons potrà essere utile per fissare la data e le condizioni, compresa la distanza, del Termination Shock, laddove la velocità del vento solare scende sotto la velocità del suono (Heather A. Elliott et al. Slowing of the Solar Wind in the Outer Heliosphere, The Astrophysical Journal - 2019).
La "nuova" forma dell'eliosfera. Crediti M.Opher et al 2020
Legato al mezzo interplanetario esiste un mistero che va avanti dal 1982, da quando le zone prossimi a Venere evidenziarono un cambiamento nel campo magnetico locale della durata di dodici ore. Un comportamento del tutto anomalo e inspiegabile - verificatosi in altri casi e in altri luoghi e con durate da pochi secondi a dodici ore- che potrebbe aver trovato soluzione nel 2020, con la scoperta di nubi di polvere creata da collisioni e magnetizzata dal vento solare (H. R. Lai et al. Magnetized Dust Clouds Penetrating the Terrestrial Bow Shock Detected by Multiple Spacecraft, Geophysical Research Letters - 2019).
Distanze nel Sistema Solare
Ogni corpo del Sistema Solare si muove secondo la Legge di Gravitazione Universale (per Mercurio è stato necessario il ricorso alla Relatività Generale), proprio come ogni corpo dell'universo fa altrettanto. Quindi non solo i pianeti ma anche asteroidi, comete e meteoroidi rispettano le stesse leggi ed il loro moto sarebbe del tutto prevedibile, dopo una osservazione ripetuta per un tempo sufficiente a stabilirne le regole. La Legge di Gravitazione Universale e le Tre Leggi di Keplero ci insegnano come il Sole occupi uno dei fuochi delle ellissi tracciate da ogni corpo in orbita, e come tutti i corpi - grandi o piccoli che siano - seguano il movimento che rappresenta lo sforzo minore nel loro cammino.
Immaginiamo un Sistema Solare ridotto, riducendolo a scala di 1:250.000.000.000. Il Sole verrebbe ad avere un diametro di 5,6 millimetri (quindi come le dimensioni di un pisello, più o meno) mentre i pianeti, a questa scala, non potrebbero essere neanche rappresentati. Volendo rapportare le distanze, dovremmo piazzare Mercurio a circa 2 centimetri e mezzo dal nostro piccolo Sole, Venere a poco meno di mezzo metro, la Terra a circa 0,6 metri, Marte a poco meno di un metro, Giove a poco più di 3 metri, Saturno a più di 5 metri e mezzo, Urano a 11 metri e mezzo, Nettuno a 18 metri. Riducendo, quindi, il Sistema Solare di 250 miliardi di volte, il nostro Sistema Solare non entrerebbe in una stanza normale date le dimensioni. Tanto per darci una idea, anche a questa scala ridottissima la stella Proxima Centauri la più vicina con i suoi 4,28 anni luce di distanza, dovrebbe essere sistemata a 150 chilometri da casa nostra, in una galassia che, sebbene ridotta di 250 miliardi di volte, dovrebbe avere un diametro di 3.800.000 chilometri per riportare in scala i suoi 100.000 anni luce (uno spazio maggiore di più di dieci volte la distanza Terra-Luna).
La dislocazione dei pianeti e dei corpi minori come gli asteroidi all'interno del Sistema Solare può essere approssimata tramite la Legge di Titius-Bode.
Ultimo aggiornamento del: 29/08/2021 10:28:12
Bolla Locale e Local Fluff: dove si trova il Sistema Solare
All'interno della Via Lattea, il Sole sta attraversando una zona ben particolare fatta di gas e di bolle, la cui natura è oggetto di molteplici studi. Si parla quindi di Bolla Locale e di Nube Interstellare Locale o Local Fluff
La Bolla Locale
All'interno del mezzo interstellare , che separa le stelle e la loro area di influenza elettromagnetica, nel Braccio di Orione è presente una sorta di cavità estesa per 300 anni luce e con una densità che varia tra 0.05 e 0.07 atomi per centimetro cubo. Si rende osservabile attraverso osservazioni a raggi X , risultanti da una temperatura che può raggiungere quella della superficie solare (circa 6.000 Kelvin ).
Rappresentazione della Bolla Locale e dell'intersezione con la Bolla Anello I. Crediti Wikipedia
Proprio all'interno di questa cavità si muove il Sistema Solare (internamente alla Local Fluff che vedremo di seguito), con un ingresso avvenuto circa 3 milioni di anni fa. La forma della Bolla Locale dovrebbe essere una sorta di ellisse più stretta a livello del piano galattico, il che dona un aspetto a clessidra.
L'origine della Bolla Locale dovrebbe risiedere nell'esplosione di una supernova (forse riferita alla pulsar Geminga) nella costellazione dei Gemelli. L'onda d'urto avrebbe quindi scavato l'area abbassandone la densità e proprio a tal riguardo giunge un articolo - nel 2020 - che analizza il percorso del Sole attraverso una zona ricca di ferro-60, un elemento chimico prodotto dalle esplosioni di supernova. Secondo questo studio, la Terra avrebbe passato gli ultimi 33 mila anni ad attraversare una nube di polvere debolmente radioattiva generata da una supernova e la prova starebbe proprio nel ferro-60, un elemento che impiega 15 milioni di anni a decadere. Il fatto che esista ancora significa che non si tratta di un elemento risalente alla formazione del Sistema Solare (A. Wallner et al. 60Fe deposition during the late Pleistocene and the Holocene echoes past supernova activity, Proceedings of the National Academy of Sciences - 2020). Nel 2022, un nuovo studio mostra una catena di eventi iniziata 14 miliardi di anni fa e terminata con la nascita della Bolla, responsabile della formazione di tutte le stelle giovani vicine. Lo studio si è basato sulle posizioni, le forme e i moti del gas denso e delle giovani stelle disposte entro i 200 parsec dal Sole: grazie a ciò è stato possibile dedurre come tutte le regioni di formazione stellare a noi prossimi abbiano avuto origine sulla superficie della Bolla Locale, con una espansione perpendicolare alla superficie della stessa. L'origine della Bolla ha determinato prima la nscita e poi la morte di un gruppo di stelle esplose in supernovae circa 14 miliardi di anni fa, mentre la sua espansione - legata proprio all'effetto delle supernovae - ha spazzato via il mezzo interstellare. Sono circa 15 le supernovae spente nel corso di milioni di anni per formare ciò che vediamo oggi (Nature - “Star formation near the Sun is driven by expansion of the Local Bubble” - Catherine Zucker et al)
La Local Fluff o Nube Interstellare Locale
All'interno della Bolla Locale, il Sistema Solare sta passando attraverso una nube interstellare estesa per 30 anni luce. Il viaggio all'interno della Nube dovrebbe aver visto origine in un periodo tra 44 mila e 150 mila anni fa e durerà ancora per pochissime decine di migliaia di anni.
Questa Nube ha tratto origine dall'incontro tra Bolla Locale e Bolla Anello I e comprende stelle come Altair, Vega, Arturo e Fomalhaut, tra le altre. Le sue caratteristiche sono date da una temperatura di circa 6.000 Kelvin ma da una densità decisamente bassa, stimata in 0.26 atomi (idrogeno e elio) al centrimetro cubo e quindi decisamente inferiore alla media galattica (0.5 atomi/cm3) ma più alta rispetto alla Bolla Locale (0.05).
Le caratteristiche della nube hanno indotto gli scienziati a ritenerne addirittura "strana" l'esistenza, troppo rarefatta per poter stare insieme: circa 10 milioni di anni fa, una supernova è esplosa nelle vicinanze della Local Fluff creando una gigante bolla di gas a milioni di gradi di temperatura. La nube è completamente circondata da questo involucro di gas caldo e temperatura osservata e densità non sono abbastanza elevate da far fronte all'azione del gas caldo circostante. Nel numero di Nature del 24 dicembre 2009, però, un team di scienziati fornisce la soluzione grazie ai dati della sonda Voyager della NASA. Utilizzando i dati provenienti dalla Voyager, infatti, è stato scoperto un forte campo magnetico esterno al Sistema Solare, campo magnetico che - tra 4 e 5 microgauss - tiene insieme la nube interstellare e svela finalmente il motivo per il quale questa nube esiste.
Le due sonde Voyager della NASA stanno scorazzando fuori dal Sistema Solare da una quarantina di anni ed attualmente sono oltre l'orbita di Plutone, puntando verso lo spazio interstellare. Attualmente non si trovano nella Local Fluff, ma si stanno avvicinando e possono studiare l'approccio ad essa.
Rappresentazione della Nube Interstellare Locale e del moto del Sole rispetto a essa. Crediti Wikipedia
La nube è tenuta a bada al di là dei confini del Sistema Solare dal campo magnetico del Sole, che gonfia l'eliosfera, la quale a sua volta agisce come uno scudo a protezione dai raggi cosmici galattici e dalle nubi interstellari. Il fatto che la Local Fluff sia così fortemente magnetizzata implica che anche le altre nubi nelle vicinanze potrebbero esserlo. Eventualmente, il Sistema Solare andrà a finire in qualcuna di esse ed i campi magnetici potrebbero comprimere l'eliosfera più (o meno) di quanto stia facendo la Local Fluff. Una compressione maggiore consentirebbe a più raggi cosmici di raggiungere il Sistema Solare interno, portando conseguenze anche sul clima terrestre e sulla vivibilità dello spazio vicino alla Terra. D'altro canto, lo spazio interstellare sarebbe più vicino e le sonde non dovrebbero viaggiare tanto quanto le Voyager per raggiungerlo. Questi eventi potrebbero verificarsi nello spazio di decine di centinaia di migliaia di anni, il tempo necessario al Sistema Solare per raggiungere le altre nubi.
Ultimo aggiornamento del: 14/01/2022 17:44:50
Come si è formato il Sistema Solare
La formazione del Sistema Solare è ancora oggi uno dei campi di ricerca più battuti: sebbene la formazione ricalchi quella di qualsiasi sistema planetario, i dettagli che portano alla situazione che vediamo oggi sono ancora in gran parte oscuri
Fino a pochi decenni fa il Sistema Solare era visto come qualcosa di ignoto ed inesplorabile, ma con l'avanzare delle tecnologie l'uomo ha acquisito numerose informazioni che stanno consentendo non solo di inviare sonde, ma anche di pensare ad una futura colonizzazione. La nascita del Sistema Solare rispecchia la nascita di un qualunque sistema planetario e risente, quindi, delle stesse conclusioni e incertezze. Rimandiamo quindi alla apposita trattazione lasciando a questa area la specificazione di quanto è ritenuto peculiare del nostro Sistema Solare. Con la teoria della nebulosa di Laplace, i pianeti si sono formati dallo stesso materiale che ha creato il Sole quindi ciò che resta da stabilire è se il materiale dei pianeti è quello "avanzato" alla formazione del Sole oppure se è stato prima catturato dalla nostra stella e poi espulso dalla stessa. Se il Sole avesse acquisito tutta la massa disponibile, tuttavia, avrebbe trascinato con sé anche tutto il momento angolare , che invece risulta al 99,5% detenuto dai pianeti i quali, insieme, hanno invece una massa pari a 1/750 di quella dell'intero Sistema Solare: si tratta di due distribuzioni nettamente diverse e di difficile giustificazione. Anche il fatto che il Sole abbia espulso materia lascerebbe spazio a domande troppo ingombranti: soltanto una forza di marea gigantesca porterebbe il Sole ad espellere materia a favore di altri corpi, e non si ritiene che possano esistere corpi tanto grandi da influenzare il Sole in questo modo. Oggi possiamo vedere in differita la formazione del nostro Sistema Solare osservando regioni di formazioni stellari che per molti aspetti appaiono simili a quanto era la nostra nube solare 5 miliardi di anni fa e un esempio si trova nella regione dell'Ofiuco (A Solar System formation analogue in the Ophiuchus star-forming complex, Nature Astronomy - 2021).
Il trigger che ha avviato la formazione del Sistema Solare
Oggi, la genesi del Sistema Solare si spiega con la Teoria della Nebulosa Molecolare Primitiva. La teoria nasce da fenomeni osservativi dei corpi che fanno parte del Sistema Solare. Ad una osservazione anche superficiale, infatti, appare chiaro come tutti i pianeti siano in orbita nella stessa direzione, ruotando tutti nello stesso senso a eccezione di Venere ed Urano (agli antipodi dal punto di vista posizionale ma soggetti nel passato a eventi collisionali giganti), come le orbite siano tutte pressoché circolari e poco inclinate rispetto all'eclittica . Appare anche definito come i pianeti interni siano terrestri e quelli esterni siano gassosi e come tutti sembrano aver ricevuto impatti notevoli a giudicare dalle cicatrici crateriche che presentano in superficie. Infine, nessun corpo celeste ha età superiore ai 4,5 miliardi di anni. Rispetto alla Teoria accennata, che vale per tutti i sistemi planetari, il nostro Sistema presenta però delle peculiarità importanti: una totale assenza di "super-Terra" ad esempio, che invece sembrano essere molto comuni in tutti gli altri sistemi planetari scoperti a oggi; l'assenza di hot Jupiter, decisamente comuni nell'universo. Qualcosa di "speciale", quindi, abbiamo ancora, o almeno non abbiamo ancora trovato - forse per motivi tecnologici - sistemi come il nostro. Dal punto di vista chimico, invece, appariamo più "normali": attraverso lo studio (Agosto 2018) di 18 diversi sistemi planetari in giro per la Via Lattea fino a 456 anni luce di distanza, infatti, è risultato come la composizione chimica del nostro sistema, e della Terra in particolare, sia abbastanza normale, sia in termini di elementi sia di proporzioni. Lo studio ha preso in esame le nane bianche, la cui atmosfera è composta da idrogeno e elio in misura abbastanza certa. Quando il materiale di pianeti e corpi minori, in orbita, si avvicina a queste stelle va a formare un disco che altera l'osservazione della stella e lo spettro che vediamo. Oggetto dello studio è stato quindi un campione di nane bianche con disco di detriti al fine di misurare calcio, magnesio e silicio in via principale. Le composizioni sono risultate estremamente simili a quella terrestre.
Tenuto presente tutto ciò, sembra proprio che 4,568 miliardi di anni (con errore possibile in 2 milioni di anni appena) fa alla periferia della nostra Via Lattea , precisamente nel braccio di Orione della Galassia , vi fosse una nebulosa molecolare molto grande la quale, a un certo punto forse a causa di una esplosione di supernova , abbia iniziato a spiraleggiare intorno a un centro di contrazione il quale, raggiunta una certa massa (massa di Jeans ) abbia iniziato spontaneamente ad attrarre altro materiale.
A sostegno della teoria della supernova come trigger per l'inizio della contrazione nebulare è un lavoro pubblicato su Astrophysical Journal ad Agosto 2017 a firma di Alan Boss del Carnegie Istitution for Science. Lo studio si basa sull'analisi delle meteoriti rinvenute sulla Terra, in particolar modo sull'analisi degli isotopi di alcuni elementi in particolare. Le condriti carbonacee sono un particolare tipo di meteorite , tra le più primitive nel Sistema Solare. Alcuni isotopi esistenti ai tempi della formazione del Sistema Solare sono radioattivi e sono in possesso di tassi di decadimento ben noti che li ha portati all'estizione nel giro di centinaia di milioni di anni. Il fatto che tali isotopi esistessero ancora al tempo di formazione delle condriti è evidenziato dalla presenza del "prodotto" del decadimento radioattivo di questi elementi instabili e proprio la misura di queste abbondanze ha fornito al team la base di partenza per lo studio: l'analisi si è concentrata sul ferro-60, un elemento di breve durata che decade in nickel-60. Questo elemento viene creato soltanto dalle reazioni nucleari interne a stelle di un certo tipo, comprese le supernovae e le stelle AGB (Asymptotic Giant Branch nel Diagramma HR ). Il ferro-60 è oramai decaduto così ci si è concentrati sul ferro-56, più stabile e confrontabile con la quantità di nickel-60. Dal confronto si può stimiare la quantità di ferro-60 presente al momento della formazione del Sistema Solare e ciò che ne è derivato è una quantità del tutto compatibile con una esplosione di supernova . La contrazione nebulare è quindi derivante, con molta probabilità, dalla morte di una stella "vicina".
La teoria della supernova non è l'unica che nel tempo è stata avanzata: uno scenario alternativo inizia infatti con una stella di tipo Wolf-Rayet, con massa superiore a quella solare di circa 40 o 50 volte. Queste stelle bruciano in fretta producendo tonnellate di elementi che vengono poi allontanati dai potenti venti. I venti vanno a formare delle bolle con un denso guscio e proprio questo guscio sarebbe un buon posto per produrre stelle visto che gas e polvere vengono intrappolati all'interno, liberi di condensarsi in stelle e pianeti. Secondo lo studio, una percentuale tra 1 e 16 percento delle stelle solari potrebbe essersi formata con questo trigger. Uno degli isotopi in abbondanza è l'alluminio-26, prodotto dalle supernovae insieme al ferro-60. Il secondo isotopo, come detto in precedenza, manca per decadimento, il che lascia aperti i dubbi sul modello della supernova. Questo ha portato alle Wolf-Rayet, che rilasciano alluminio-26 ma non ferro-60. Il Sole, quindi, dovrebbe essersi formato alla giusta distanza da stelle massive esplose per avere un quantitativo così elevato di alluminio-26, rinvenuto ad esempio nel meteorite Allende del 1976, ma si tratta di una affermazione abbastanza "forte" e così non mancano ipotesi contrarie, come quelle che chiamano in causa i raggi cosmici: l'alluminio-26 si sarebbe quindi formato vicino al giovane Sole nella zona interna del disco circostante. Mentre il materiale cadeva dal bordo interno verso il Sole venivano create onde d'urto in grado di produrre protoni ad alta energia, i raggi cosmici appunto. Questi raggi si schiantano contro il disco circostante scontrandosi con gli isotopi alluminio-27 e silicio-28, trasformandoli in alluminio-26. Questo elemento dura circa 770 mila anni e svolge un ruolo importante nella formazione di pianeti come la Terra visto che può fornire abbastanza calore tramite decadimento radioattivo e, di conseguenza, le condizioni per una stratificazione interna (Brandt A. L. Gaches et al. Aluminum-26 Enrichment in the Surface of Protostellar Disks Due to Protostellar Cosmic Rays, The Astrophysical Journal - 2020).
Si è detto di una nascita del Sistema Solare risalente a 4.568 milioni di anni fa e la stima è stata effettuata nel 2007 da ricercatori dell'Università della California. Questi hanno analizzato una condrite carbonacea risalente alla formazione del Sistema Solare, la cui matrice è ricca di manganese con globuli ricchi di cromo. Tramite la misura del cromo-53, si è ricavata la quantità dell'isotopo manganese-53 inizialmente presente, con conseguente indicazione riguardante la data di formazione. Un meteorite piovuto sulla Terra cinquanta anni fa, inoltre, si è portato dietro importanti indizi sulla formazione del Sistema Solare. Il giorno 8 febbraio 1969, la regione di Allende nel Messico del Nord, ha quindi accolto una delle rocce spaziali più studiate di sempre, studiata ancora oggi a Wellington in termini di isotopi di un particolare elemento la cui origine risale a un periodo antecedente la formazione del Sistema Solare che vediamo oggi. Stiamo quindi guardando gli "ingredienti" che hanno formato i pianeti. L'elemento è presente in una zona di meteorite chiamata inclusione di calcio-alluminio (CAI - calcium-aluminium-rich-inclusion), tra i solidi più antichi tra quelli noti e originati dal gas raffreddato appena dopo la nascita della stella centrale. Resteremo in attesa dei risultati.
Non tutto è chiaro, neanche in termini di composizione e molte domande vengono aperte dallo studio degli isotopi nelle meteoriti. Gli studi mostrano come la polvere di stelle dalla quale il Sistema Solare è nato consistesse principalmente di materiale prodotto in giganti rosse, nelle quali gli elementi pesanti come il molibdeno e il palladio, ad esempio, sono stati prodotti dal processo di cattura neutronica. Il palladio è più volatile rispetto ad altri elementi e si è condensato meno in polvere, il che spiega la minor presenza di palladio nei meteoriti studiati. Su Marte o Vesta, invece, le anomalie del palladio non si rinvengono e questo può essere spiegabile con un apporto di materiale, nelle regioni più esterne rispetto alla nostra, da supernovae (Mattias Ek et al. The origin of s-process isotope heterogeneity in the solar protoplanetary disk, Nature Astronomy - 2019). Sempre in tema di meteoriti, è interessante aver rinvenuto - proprio all'interno di meteoriti trovate in Australia - polvere risalente a un periodo compreso tra 5 e 7 miliardi di anni fa, quindi in un periodo pre-solare a rappresentare il materiale solido più antico mai scoperto sulla Terra. Il numero di questi grani risulta superiore alle attese e questo potrebbe far pensare a un periodo di boom nella formazione stellare (Pnas l- “Lifetimes of interstellar dust from cosmic ray exposure ages of presolar silicon carbide” - Philipp R. Heck). Punti aperti ci sono anche sulla formazione di mondi come Urano e Nettuno, ad esempio, e i modelli di formazione devono forzatamente tirare in ballo anche il ruolo del campo magnetico, non solo a livello di sistema planetario ma anche a scale più ridotte (Formation of intermediate-mass planets via magnetically controlled disk fragmentation, Nature Astronomy - 2021))
La formazione del Sistema Solare - secondo uno studio di fine 2020 basato sull'analisi degli isotopi del molibdeno in una meteorite - sarebbe avvenuta in appena duecentomila anni, contro 1 o 2 milioni di anni ipotizzati dalle teorie classiche e dalle osservazioni di sistemi simili al nostro (Gregory A. Brennecka et al. Astronomical context of Solar System formation from molybdenum isotopes in meteorite inclusions, Science - 2020).
Una nebulosa tutta per il Sole?
Sappiamo che le stelle solitamente nascono in ammassi e non singolarmente e sarebbe strano che il Sole, invece, fosse nato da solo soprattutto perché il materiale costituente il Sistema Solare, preservato nelle più antiche meteoriti, è arricchito da detriti di supernova provenienti da almeno una giovane stella massiccia esplosa nelle vicinanze. I dati sembrano indicare che la nebulosa iniziale avesse una massa di circa 500-3000 masse solari racchiusa in un diametro di 20 anni luce e che molte stelle si siano formate insieme al Sole. La maggior parte delle stelle formatesi è oggi andata persa nella Via Lattea , ma alcune potrebbero essere ancora nelle vicinanze e potrebbero essere rintracciate in base allo studio dei moti propri. La missione GAIA di ESA è finalizzata anche a questo tipo di studio ma la ricerca delle stelle gemelle del Sole è sempre più stretta e alla caccia partecipano - a titolo di esempio - anche astronomi australiani che, unitamente all'ESA, hanno ottenuto lo spettro elettromagnetico di più di 340 mila stelle nell'ambito della survey GALAH (Galactic Archaeology, tramite Anglo-Australian Telescope con spettrografo HERMES), che riguarda più di un milione di stelle. La survey sarà fondamentale per prendere le stelle galattiche, Sole compreso, e riportarle al loro ammasso di origine al fine di tracciare l'evoluzione della nostra Via Lattea e di trovare quelle stelle il cui DNA (composizione di circa una dozzina di elementi chimici) corrisponda a quello solare.
Addirittura il Sole potrebbe essere nato in sistema binario , sebbene non ci siano le tracce di alcuna stella come possibile ex-compagna. A dirlo - o meglio a supportare l'idea - è la forma della Nube di Oort visto che la quantità di oggetti presente e la forma della nube stessa (la quale è comunque un oggetto ancora teorico e ben lontano dalla perfetta caratterizzazione) sono maggiormente compatibili e giustificabili da una attrazione gravitazionale esercitata da una coppia di stelle anziché da una sola. Dove sia finita questa possibile stella è ad oggi un mistero, comunque, ma l'idea tenderebbe ad avvalorare anche l'ipotesi per la quale Planet Nine - altro oggetto fantomatico - potrebbe essere stato attratto gravitazionalmente (The Case for an Early Solar Binary Companion, arXiv).
Un Sistema Solare unico nel suo genere?
A oggi, studiando altri sistemi planetari, il nostro sembra quasi unico per numero e tipologia di pianeti presenti ma in realtà vanno analizzati diversi fattori. Nel 2020, l'analisi di più di mille sistemi planetari ha consentito di scoprire una serie di connessioni tra orbite, numero di pianeti e distanza che rendono il nostro Sistema unico per certi aspetti e comune per altri. E' raro avere otto pianeti, ma il Sistema Solare segue le stesse identiche regole di formazione planetaria. Esiste una chiara correlazione tra eccentricità delle orbite e numero di pianeti in ciascun sistema planetario: quando i pianeti si formano, iniziano con una orbita circolare in una nube di gas e polvere ma sono pianeti relativamente piccoli, confrontabili con la nostra Luna. Su tempi più lunghi, questi corpi interagiscono gravitazionalemente acquisendo orbite eccentriche o ellittiche, il che significa che iniziano a collidere in seguito agli incroci delle orbite. Questo accresce anche le dimensioni con il risultato finale di pochi pianeti in orbita ellittica. Se restano tanti pianeti, invece, le gravità in gioco tendono a circolarizzare di nuovo le orbite. In questo, il nostro Sistema Solare si sposa bene con il procedimento "standard". Gli unici sistemi che non si adeguano a questa regola sono quelli con un pianeta soltanto, e questo viene solitamente imputato alla breve distanza che separa questo pianeta dalla stella centrale anche se ci sono casi in cui un sistema potrebbe in effetti presentare più pianeti ancora da scoprire.
Soltanto l'1% dei sistemi solari presenta un numero di pianeti elevato come il nostro o ancora superiore: se esistono approssimativamente cento miliardi di stelle nella Galassia, allora dovrebbero esistere almeno un miliardo di sistemi planetari e circa 10 miliardi di pianeti simili alla Terra in zona abitabile, anche se c'è molta differenza tra l'essere in questa zona e aver effettivamente sviluppato forme di vita intelligente. La Terra non è speciale ma la combinazione con i giganti gassosi potrebbe esserlo (Nanna Bach-Møller et al. Orbital eccentricity–multiplicity correlation for planetary systems and comparison to the Solar system, Monthly Notices of the Royal Astronomical Society - 2020).
Ciò che avalla le nostre idee sulla formazione del Sistema Solare possiamo rivederlo in giro nella Galassia grazie alle antenne di ALMA: sappiamo così che intorno alla protostella simil-solare HH212-mm esiste un disco di 40 UA di diametro, una dimensione molto prossima a quella del nostro Sistema planetario. Proprio in questo disco sono state ritrovate le firme spettrali di molecole complesse già formate: formiato di metile (HCOOCH3), formammide (NH2CHO), etanolo (CH3CH2OH) e etere dimetilico (CH3OCH3) (Earth and Space Chemistry - “The HH212 interstellar laboratory: astrochemistry as a tool to reveal protostellar disks on Solar System scales around a rising Sun” - Claudio Codella)
Sappiamo che dalla nube in contrazione si forma un addensamento centrale, dal quale prende vita la stella (il Sole, vedi nascita stellare) e intorno al quale viene a formarsi un disco protoplanetario dal quale hanno poi origine i pianeti (formazione dei sistemi planetari). Come oggi testimoniano centinaia di osservazioni reali, come quelle centrate nel Toro con le stelle di famiglia T-Tauri, a un certo punto, la protostella (in tal caso il "protoSole") inizia a generare vento stellare (riferito al Sole si parla di vento solare), un flusso in uscita che fa perdere parte della massa in misura del 50% di quella accumulata nella fase precedente. Gli elementi dominanti al momento della formazione del Sistema Solare erano idrogeno ed elio soprattutto, polvere, silicati, ferro e ghiaccio. Nei paraggi, la temperatura era così alta che acqua ed altri elementi volatili si trovavano allo stato gassoso. Soltanto composti non volatili, come ossido di silicio e magnesio, oltre ad elementi metallici, erano in grado di rimanere allo stato solido.
La linea di demarcazione tra elementi volatili e elementi pesanti è centrata sulla così detta linea della neve o frost line.
La linea della neve è la distanza dalla stella centrale all'interno di una nube protoplanetaria in cui la temperatura è sufficientemente bassa da consentire ai composti più volatili come idrogeno, acqua, ammoniaca e metano di raggiungere lo stato solido.
Questa temperatura è stimata intorno ai 150 Kelvin e nel Sistema Solare la linea è posta a 2.7 UA di distanza dal Sole, tra Marte e Giove. Nel nostro Sistema Solare la linea della neve è decisamente coincidente con la demarcazione tra pianeti rocciosi e pianeti gassosi, mentre altrove troviamo pianeti di tipo gioviano anche a ridosso della stella centrale.
La frost line (linea della neve) nel Sistema Solare e la conseguente tendenza alla creazione di composti
più o meno volatili
Questi elementi solidi, soprattutto quelli dotati di una certa massa, iniziarono a collidere tra loro raggiungendo a volte dimensioni interessanti: nascono i planetesimi, con diametri che arrivano anche a qualche chilometro ma con masse ridotte, pari al massimo allo 0.6% della massa totale disponibile. I planetesimi, mattoni dei futuri pianeti, erano migliaia, ed orbitavano in dischi simili a quelli saturniani. Dopo una infanzia relativamente tranquilla, il Sole entrò in una fase adolescenziale violenta, ad una età di circa 10 milioni di anni: oltre una certa distanza (4 UA ) era quindi favorita l'aggregazione di soli elementi volatili come acqua ed ammoniaca, con conseguente formazione di planetesimi rocciosi o ghiacciati. Entro la stessa, invece, le sostanze volatili furono spazzate via e fatte evaporare dal vento solare e dalle temperature più elevate, dando luogo così a planetesimi rocciosi. Per quanto riguarda i pianeti rocciosi, due sotto-teorie vanno per la maggiore: la prima vede i pianeti accrescersi dal materiale presente nella zona interna del Sistema Solare mentre la seconda opta per materiale apportato dal restringimento dell'orbita di materiale originariamente più distante: le nuove osservazioni di fine 2021 sembra preferire la prima versione, con i pianeti rocciosi formati, quindi, da materiale raccolto in loco. Il confronto tra il materiale dei pianeti (facilmente per la Terra ma tramite meteoriti per gli altri) con meteoriti non carbonacee originarie del Sistema Solare interno e con meteoriti carbonacee tipiche di quello esterno, infatti, sembra aver trovato maggiori similitudini nel primo caso, con le meteoriti carbonacee che concorrono solo per il 4% alla composizione attuale. Ciò non vuol dire che il restante 96% sia puramente composto delle non carbonacee, anzi: sembra essere presente anche una terza fonte di materia prima, ma il tutto sembra essere di origine interna (Science Advances - “Terrestrial planet formation from lost inner solar system material” - Christoph Burkhardt et al.).
Non si tratta dell'unica tipologia di separazione di materiale all'interno del Sistema Solare nascente visto che la formazione di Giove ha concorso alla creazione di una zona di vuoto all'interno del disco, chiamata Jupiter Gap, in grado di separare il materiale interno da quello esterno. Tra gli indiziati per le cause di formazione di questo gap nel disco non c'è comunque solo Giove ma anche il campo magnetico sviluppato proprio dal disco, che potrebbe aver concorso in maniera sostanziale alla creazione della scissione del disco primordiale in due zone quasi indipendenti l'una dall'altra (Caue Borlina, Paleomagnetic Evidence for a Disk Substructure in the Early Solar System, Science Advances - 2021). Non si tratta, in realtà, di una divisione così netta stando agli ultimi lavori visto che i dati ritornati dalla sonda Stardust della NASA, dedicata a una cometa, ha evidenziato la presenza di elementi formatisi nella zona interna rispetto alla Jupiter Gap. Deve quindi esserci stato un passaggio di materiale da una zona all'altra del gap, passaggio del quale è possibile rinvenire le prove anche nelle condriti provenienti dalle regioni più prossime al Sole e da quelle più distanti (Devin L. Schrader et al. Outward migration of chondrule fragments in the early Solar System: O-isotopic evidence for rocky material crossing the Jupiter Gap?, Geochimica et Cosmochimica Acta - 2020). Ulteriori prove dell'attraversamento della Jupiter Gap da parte di materiale provengono da un altro campione di 30 meteoriti, comprensive di Allende (Messico, 1969) e Karoonda (Australia, 1930), che presentano isotopi tipici della zona interna e di quella esterna (Curtis D. Williams et al, Chondrules reveal large-scale outward transport of inner Solar System materials in the protoplanetary disk, Proceedings of the National Academy of Sciences - 2020). L'attraversamento può essere legato a materiale tanto veloce da attraversare il gap oppure all'azione del vento solare.
A inizio 2022, invece, un nuovo lavoro punta su un Sole nascente dotato di tre anelli quando i pianeti ancora non erano presenti: bande di gas e polvere dalle quali hanno poi preso vita i corpi che vediamo oggi, compresa una super-Terra mancata che nel nostro sistema attuale manca. Tutto questo troverebbe conferma negli anelli osservati intorno a molte giovani stelle, creati da bumps (dossi di pressione) nei quali - a fronte di maggior densità di gas - le particelle restano intrappolate fino a formare planetesimi. I modelli non hanno riprodotto un disco a densità decrescente ma tre anelli di formazione planetesimale in tre regioni ben precise la cui posizione sarebbe data dal punto di sublimazione dei principali costituenti delle particelle: silicati all'interno, acqua nel mezzo (corrispondente alla linea della neve) e monossido di carbonio nell'anello più esterno. Il modello risponderebbe anche alla diversa composizione dei pianeti interni rispetto a quelli esterni e spiegherebbe la presenza di asteroidi nella Fascia Principale. Tra i tre, l'anello centrale sarebbe apparso in ritardo rispetto agli altri (Nature Astronomy - “Planetesimal rings as the cause of the Solar System’s planetary architecture” - Andre Izidoro et al.)
La configurazione che vediamo oggi nel Sistema Solare non trova un pieno appoggio teorico nella teoria nebulare "pura" ma richiede eventi successivi che dovrebbero aver segnato profondamente la composizione e la struttura del Sistema Solare intero. Così, ad esempio, Nettuno e Urano si trovano in una zona in cui il materiale del disco protoplanetario doveva essere decisamente poco, comunque non sufficiente a creare due pianeti di questo tipo. Allo stesso modo la posizione attuale di Giove non sembra quella di partenza mentre le inclinazioni dei pianeti, sia rispetto al piano orbitale sia rispetto a quello di rotazione , necessitano di una spiegazione (ipotetica) a parte. Contrariamente ad altri sistemi planetari, infatti, conosciamo abbastanza bene i pianeti del Sistema Solare e quindi potremo vedere, corpo per corpo, quali siano le ipotesi e le prove apportate per spiegare posizioni e sembianze che vediamo oggi. Ciò che possiamo ancora generalizzare è il processo nel suo insieme, fatto di instabilità iniziale e di bombardamenti più o meno pesanti.
La struttura attuale del Sistema Solare, secondo la teoria generalmente accettata, è stata acquisita dopo un periodo turbolento chiamato Late Heavy Bombardment avvenuto circa 700 milioni dopo la formazione, ma su questo non c'è perfetto accordo tra tutti gli scienziati. Le orbite di molti corpi solari consentono di scrivere la storia della formazione del Sistema intero: inizialmente co-planari e più strette, più interconnesse in sistemi a dinamica di risonanza, oggi è possibile estrarre ancora più dettagli. I quattro pianeti giganti, ad esempio, sono emersi da gas e polvere in orbite più compatte e il loro moto risulta estremamente sincrono, con Giove a completare tre rivoluzioni ogni due giri di Saturno. Per i planetesimi posti oltre Urano e Nettuno, le risonanze sono state distrutte al termine della fase gassosa e il Sistema totale è entrato in un periodo di caos con interazioni violente tra i giganti gassosi e introduzione di materiale nello spazio. Plutone è stato spedito nella Fascia di Kuiper, dove risiede ora, e l'intero gruppo di pianeti è migrato più distante dal Sole. Ma quando è accaduto tutto questo? Si va dai cento milioni ai settecento milioni di anni, come stima, con l'ultima a prevalere nella planetologia generale anche alla luce delle conferme che sembrano avallare il "Late Heavy Bombardment" scritto nelle rocce lunari riportate dalle missioni Apllo. Secondo alcuni, tuttavia, un simile evento avrebbe distrutto anche la Terra e gli altri pianeti terrestri, o avrebbe causato perlomeno disturbi in grado di alterare notevolmente le orbite. Le rocce lunari, tuttavia, sembrano essere state prodotte da un singolo impatto: se fossero originarie della instabilità tardiva dei pianeti porterebbero i segni di diversi impatti, dato lo scattering dei planetesimi a opera dei pianeti giganti di cui si parlava. Allora proviamo a datare l'instabilità in modo dinamico: potrebbe essere stata tardiva in presenza di una distanza relativamente ampia tra bordo interno del disco di planetesimi e orbita di Nettuno al momento dell'esaurimento del gas iniziale. Questa distanza è stata dichiarata insostenibile da simulazioni al supercomputer. Minore è la distanza tra il bordo del disco di planetesimi e Nettuno, invece, maggiore è l'influenza gravitazionale e più precoce è il periodo di instabilità: occorre quindi scolpire al meglio il disco di planetesimi primordiale, guardando nel passato alla formazione di Urano e Nettuno. Un nuovo modello, proposto a inizio 2020, inizia con i pianeti ancora non totalmente formati e quindi ancora in fase di crescita per collisioni successive e porta a una distanza tra Nettuno e disco dei planetesimi molto inferiore, in uno scenario che sembra accordarsi bene con le orbite osservate oggi, con la struttura della Fascia di Kuiper e con il moto dei troiani. Le interazioni gravitazionali tra i giganti gassosi e i planetesimi del disco hanno prodotto disturbi nel disco di gas sotto forma di onde e queste onde hanno prodotto sistemi compatti e sincroni. Quando il gas si è diradato, le interazioni tra pianeti e disco di planetesimi hanno interrotto la sincronia donando al Sistema una fase di caos. Tenendo conto di tutto questo, l'instabilità dovrebbe essersi verificata nei primi cento milioni di anni, prima della formazione di Terra e Luna (Rafael de Sousa Ribeiro et al, Dynamical evidence for an early giant planet instability, Icarus - 2019).
Ciò che è certo è che il Sistema Solare è riuscito a mantenere un assetto stabile che non ha comportato la cannibalizzazione di pianeti, cosa che invece sembra essere accaduta in un quarto dei sistemi binari composti da stelle simili al Sole. La statistica viene da uno studio apparso su Nature nel 2021 che ha analizzato 107 sistemi binari di questo tipo alla ricerca di variazioni chimiche tra le componenti di ciascun sistema: se due stelle nascono insieme, la loro composizione chimica deve essere uguale ma è noto oramai da anni come alcune coppie appaiano chimicamente diverse. La motivazione sta nella distruzione di uno o più pianeti da parte di una stella del sistema binario. Ciò non è accaduto per il nostro Sole e questo ha semplificato lo svilupparsi della vita come la conosciamo (Nature Astronomy - “Chemical evidence for planetary ingestion in a quarter of Sun-like stars” - L. Spina et al.)
Altro processo dibattuto è l'accrescimento del disco protoplanetario , caratterizzato da fasi molto caotiche: quando i pianeti ancora non avevano raggiunto le dimensioni di Marte, la gravità non era sufficiente a trattenere l'atmosfera presente, creata dagli impatti tra corpi rocciosi. La perdita di atmosfera cambiò la composizione del nostro pianeta, e questo è provato da isotopi del magnesio. Più del 40% della massa terrestre è andata persa durante la formazione e questo è valido per il nostro pianeta ma anche per Marte e Vesta, in base allo studio delle meteoriti (Nature, 2017). In realtà è molto complesso stabilire quanta parte di atmosfera venga perduta durante gli impatti tra corpi planetari e si è sempre pensato che la collisione subita dalla Terra e in grado di formare la Luna abbia portato il nostro pianeta a perdere tra il 10 e il 40% dell'atmosfera iniziale. Simulazioni abbastanza precise, in tal senso, sono giunte nel 2020 a opera della Durham University tramite il supercomputer COSMA, in grado di collegare la perdita atmosferica a fattori di impatto quali angolo di incidenza e velocità generando più di cento tipologie di collisione. Gli impatti a striscio, come quello che ha formato la Luna, determinano una minor perdita atmosferica rispetto a quelli diretti così come velocità di impatto maggiori determinano una erosione maggiore, a volte determinando la perdita totale di atmosfera e di parte del mantello (Astrophysical Journal - 2020). Di seguito due elaborazioni relativamente a un impatto diretto e a un impatto "di striscio" (Credit: Dr Jacob Kegerreis, Durham University)
La composizione estremamente diversa tra i pianeti del Sistema Solare potrebbe essere spiegata con una nuova teoria che parte dal momento della differenziazione, ovvero dal momento in cui - nonostante una nascita come nuclei rocciosi - i pianeti hanno iniziato a prendere strade diverse.
I pianeti crescono tutti allo stesso tasso ma hanno smesso di crescere in diverse epoche: i pianeti più piccoli hanno smesso di crescere prima di quanto non abbiano invece fatto i pianeti maggiori. Durante questo tempo il materiale ha continuato ad aggiungersi al disco protoplanetario, il quale ha quindi acquisito materiale nuovo ma anche diverso: i pianeti che ancora stavano crescendo hanno acquisito anche questo nuovo materiale mentre gli altri ne sono rimasti privi. La teoria deriva dall'analisi di isotopi del calcio rinvenuti in diverse meteoriti di Marte e di Vesta. Gli isotopi del calcio sono collegati alla formazione delle rocce e offrono indizi sulle loro origini: il tasso isotopico nei campioni sono collegati alla massa dei corpi di origine il che può essere una approssimazione per la timeline di accrescimento.
Ultimo aggiornamento del: 16/01/2022 11:11:56
Un confronto tra i pianeti in cerca della storia
La formazione del Sistema Solare ha dato vita a un aggregato instabile di corpi celesti più o meno grandi. Oggi vediamo pianeti con diverse inclinazioni e con numerosi crateri. Vediamo pianeti dove non dovrebbero essere. Questo richiede aggiunte.
Abbiamo accennato ad alcune anomalie rispetto alla teoria nebulare pura, tra le quali la distribuzione del momento angolare e la presenza di Urano e Nettuno in un luogo dove difficilmente possono essersi formati.
La storia evolutiva del Sistema Solare, fino a stabilità, deve essere stata caratterizzata da spostamenti orbitali dei pianeti maggiori (migrazione) e da conseguenti variazioni orbitali dei corpi più piccoli con inevitabili collisioni tra corpi celesti. Una collisione gigante tra la Terra e un corpo celeste delle dimensioni di Marte dovrebbe, ad esempio, aver dato luogo alla Luna mentre lo spostamento e il posizionamento di Giove dovrebbe aver creato dei gap di risonanza all'interno della Fascia Principale degli Asteroidi fino a sparare dei corpi celesti minori verso le zone più esterne del Sistema Solare. Giove dovrebbe essersi spostato verso l'interno del Sistema Solare contrariamente agli altri tre pianeti giganti, il cui movimento dovrebbe essere andato verso l'esterno.
Una analisi comparata dei pianeti può essere utile per comprendere come la storia di ciascun singolo corpo celeste possa essere stata caratterizzata da eventi peculiari.
Pianeti rocciosi e pianeti gassosi/ghiacciati
Innanzitutto si distingue tra pianeti rocciosi e pianeti gassosi o ghiacciati. I primi sono quelli più vicini al Sole e sono Mercurio, Venere, Terra e Marte. Il loro diametro non supera i 15.000 chilometri con densità elevate, comprese tra 3 e 5 (la base è 1, la densità dell'acqua). Il materiale che compone questi pianeti è formato da elementi chimici detti "pesanti", come ossigeno, magnesio, silicio e ferro. Non si tratta di elementi creati durante il Big Bang , visto che questa primordiale esplosione ha prodotto soltanto gli elementi più leggeri come idrogeno, elio, litio e deuterio. L'arricchimento di questi materiali con altri più pesanti (detti metalli) non è dovuto al Sole, come pensava Anassagora (filosofo greco, 500-428 a.C.) che riteneva il Sole "niente altro se non una massa di ferro rosso e caldo". E' dovuto invece a quelle che oggi chiamiamo esplosioni di supernova .
Differenziazione planetaria, l'esempio della Terra
La composizione base prevede un nucleo ferroso circondato da un mantello basaltico, circondato a sua volta da una crosta esterna. Questo processo di differenziazione non sarebbe potuto avvenire senza che il nucleo del pianeta primitivo fosse fuso ed ha seguito lo stesso processo che si verifica nelle fornaci industriali ad alte temperature. Negli anni Settanta si pensava che un processo simile richiedesse miliardi di anni, necessari a creare una quantità di calore sufficiente tramite disintegrazione di elementi radioattivi interni al pianeta. Le analisi delle meteoriti di Marte, effettuata negli anni Ottanta, ha rivelato invece uno scenario più rapido: il ferro è migrato dalla crosta fino al nucleo insieme all'accrescimento del pianeta , in meno di 50 milioni di anni (probabilmente soltanto 20 milioni di anni). E' stato il fenomeno di accrescimento stesso a fornire abbastanza calore ai pianeti rocciosi, tanto da consentire di miscelare le sostanze presenti in modo da ricreare una fornace naturale. Nel nucleo della fornace, ossigeno, carbonio ed ossido di ferro hanno reagito a formare ferro e diossido di carbonio. Nel magma del pianeta, l'ossido di ferro e la grafite delle meteoriti (condriti carbonacee) hanno reagito a formare ferro metallico e diossido di carbonio. Il ferro fuso è sceso all'interno del pianeta, scaldandosi durante il movimento. Invece, sostanze come ossido di alluminio ed ossido di calcio sono salite in superficie dando vita alla crosta primaria del pianeta.
La rivoluzione dei pianeti rocciosi è più veloce rispetto a quella della categoria dei pianeti gassosi, mentre la rotazione è più lenta. Dal punto di vista atmosferico e superficiale si tratta di pianeti con caratteristiche molto differenti tra loro, contrariamente alla categoria opposta. Ma pianeti che sono nati nello stesso modo, perché presentano tutte queste differenze? Varie circostanze possono essere invocate per spiegare la differente evoluzione di questi pianeti, tra le quali le differenti dimensioni iniziali, la storia cataclismica ed il processo di perdita di calore.
- Differenti dimensioni iniziali: alla fine del periodo di accrescimento, poco più di 4,45 miliardi di anni fa, Marte aveva la metà delle dimensioni di Venere o della Terra ed una massa circa dieci volte inferiore. Questa differenza è fondamentale per l'energia immagazzinata dai pianeti: più sono massicci e maggiore è l'accelerazione gravitazionale impressa ai planetesimi, quindi maggiore è la forza degli impatti. Inoltre, più grande è il pianeta e maggiore è la quantità di elementi radioattivi presenti al suo interno. I pianeti più grandi conservano meglio il calore visto che la forza di gravità maggiore può mantenere una densa atmosfera , opaca alla radiazione termica e quindi in grado di limitare la perdita di energia. Questo è il motivo per il quale i due corpi più piccoli, Mercurio e Marte, si sono raffreddati più velocemente, con Marte a fare da intermediario tra il più piccolo, Mercurio, ed i due più grandi, Terra e Venere. La Terra è caratterizzata da placche tettoniche che si muovono ad un ritmo di pochi centimetri per anno. Questo movimento in superficie è associato a correnti convettive all'interno del mantello. Questo fenomeno accorpa i due terzi della perdita di calore dal mantello e dal nucleo. è nelle zone vulcaniche e nelle dorsali oceaniche che le placche si muovono, consentendo alla materia calda di emergere e formare nuova crosta al tasso di 3 chilometri quadrati di crosta oceanica ogni anno. Venere e Marte, invece, non hanno una tettonica a zolle. Il calore interno di questi pianeti, probabilmente, si è perso attraverso delle correnti in salita nel mantello (vulcani), formando pennacchi cilindrici in superficie.
- Storia cataclismica: il processo casuale di impatti meteoritici ha giocato un ruolo importante nell'evoluzione dei pianeti interni. Un esempio è la Terra, il cui mantello ha assorbito gran parte della materia e dell'energia sviluppata nel violento impatto che ha dato vita alla Luna, circa 4,48 miliardi di anni fa. Come confronto, basti pensare a Mercurio, che invece ha perso gran parte del proprio mantello durante un altro impatto.
- Processo di raffreddamento: dopo aver assorbito materiale ed energia gravitazionale, i pianeti hanno irradiato parte del proprio calore interno, incluso il calore rilasciato lentamente dalla radioattività delle rocce. Quale meccanismo è scattato per giungere a questo? Nel caso dei corpi solidi come i pianeti rocciosi, il processo consiste nella [V]conduzione[/V] termica di calore fino alla superficie, che causa un raffreddamento proporzionale alla superficie del pianeta ed inversamente proporzionale al suo volume. Un grande pianeta perde relativamente minore energia rispetto ad uno piccolo. Comunque questo modello non tiene conto dello spessore della superficie, del vulcanismo e dei movimenti del mantello. Cosa accade nel mantello solido nel lungo periodo? Le rocce calde sono soggette a deformazione ed il materiale più profondo, caldo e meno denso, può venire in superficie dove si raffredda. Questo fenomeno, noto come convezione , è molto più efficiente di una conduzione per il trasporto ed il rilascio di energia. La Terra è oggi il pianeta con la convezione più forte mentre su Luna e Mercurio il processo è probabilmente terminato. Marte, di nuovo, è a metà, con un mantello abbastanza caldo da consentire una minima convezione o almeno, specialmente sotto i grandi vulcani, con zone di vulcanismo attivo nell'ultima centinaia di milioni di anni.
I pianeti gassosi, invece, hanno dimensioni che superano i 50.000 chilometri di diametro, con densità molto basse (Saturno ha una densità inferiore ad 1, quindi posto su un grande oceano galleggerebbe) e caratteristiche simili. Tuttavia si suddividono in due grandi tipologie: i giganti gassosi ed i giganti ghiacciati. Nella prima sub-categoria ci sono Giove e Saturno, composti da un nucleo di ghiaccio roccioso (il tema è dibattuto ma sembra accertato almeno per i pianeti studiati) circondato da un mantello liquido, coperto da uno spesso strato di gas. I pianeti ghiacciati, invece, hanno un nucleo di roccia circondato da ghiaccio e da una atmosfera. Le rivoluzioni dei pianeti gassosi e ghiacciati superano i 12 anni ed arrivano fino a 165 anni, quindi sono molto più lente rispetto a quelle dei pianeti rocciosi. La rotazione, invece, è molto veloce il che fornisce ai pianeti gassosi una forma più schiacciata.
Questa dicotomia nelle caratteristiche dei corpi planetari del Sistema Solare può essere vista come una linea che divide in due i pianeti solari, con molecole organiche a dominare i pianeti rocciosi e composti di carbonio ad arricchire il Sistema esterno. Da sempre imputata a Giove, questa dicotomia è stata simulata da un team di scienziati a inizio 2020 con risultati differenti: Giove non risulta sufficiente a spiegare una demarcazione così netta. La grande divisione, invece, sarebbe dovuta a differenti concentrazioni di materiale e si sarebbe verificata proprio in corrispondenza di un minimo di materiale. Si tratta di una simulazione che ben si sposa con le osservazioni di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in altri sistemi planetari, spesso dotati di concentrazioni di materia molto differenti. La demarcazione avrebbe creato quindi la differenza tra i pianeti, ma non avrebbe vietato in senso assoluto ai composti organici di sconfinare nel Sistema Solare interno, se è vero che siamo qui a raccontarlo (Nature Astronomy: The partitioning of the inner and outer Solar System by a structured protoplanetary disk - R.Brasser et al.).
Alcuni dischi osservati da ALMA.
Crediti S. Andrews, L. Cieza, A. Isella, A. Kataoka, B. Saxton (Nrao/Aui/Nsf), Alma (Eso/Naoj/Nrao)
Otti pianeti e soltanto uno abitabile, il nostro: è un caso oppure è un limite? Uno studio del 2020 sostiene che un Sistema come quello Solare possa ospitare al massimo sei pianeti con acqua liquida prima che le forze gravitazionali in gioco rendano il sistema stesso instabile. Il fatto che soltanto la Terra sia in possesso dei requisiti di abitabilità sarebbe da imputare alla circolarità delle orbite e alla massa enorme di Giove, in grado di disturbare notevolmente i percorsi degli altri pianeti. Questo significa che stelle simili al Sole e nel cui sistema non è presente una anomalia come Giove potrebbero ospitare diversi pianeti abitabili e un candidato è la stella Beta Canum Venaticorum, distante 27 anni luce da noi (The Astronomical Journal - “Dynamical Packing in the Habitable Zone: The Case of Beta CVn” - Stephen R. Kane).
Rotazioni a confronto e implicazioni
La durata del giorno è legata al movimento di rotazione del pianeta intorno al suo asse, riconducibile essenzialmente al senso di rotazione iniziale della nube stellare dalla quale i pianeti hanno avuto origine e dagli impatti fuori asse avvenuti tra i planetesimi ed i planetoidi in formazione. Un impatto che avviene precisamente al centro di un pianeta in formazione determina presumibilmente una fusione (non in senso chimico) tra i due corpi in collisione che, quindi, ne formano soltanto uno di massa superiore. Una collisione che invece colpisce un corpo fuori dal suo asse (quindi, magari, "di striscio") ha effetti sulla rotazione del corpo stesso, come quando facciamo girare un pallone sul dito della mano e per continuare a farlo girare imprimiamo forza con l'altra mano, impattando il pallone lateralmente. Dal senso di rotazione della nube originaria deriva il fatto che tutti i pianeti ruotano nello stesso verso, mentre dagli impatti successivi derivano due fattori essenziali come la velocità di rotazione e come l'inclinazione dell'asse di rotazione.
Dalla velocità di rotazione derivano due fattori: la forma del pianeta (ma più in generale vale per altri corpi celesti, anche per le stelle) e la durata del giorno, intesa come tempo che intercorre tra l'inizio dell'esposizione ai raggi solari di un punto superficiale e la fine dell'esposizione stessa.
Lo schiacciamento polare è ricavato tramite una formula:
1 - (Dp / De)
dove Dp è il diametro polare mentre De è il diametro equatoriale. Ordiniamo, quindi, i pianeti in base alla velocità di rotazione:
Velocità di rotazione dei pianeti
Pianeta |
Velocità rot. (m/s) |
Durata del giorno (gg) |
Schiacciamento polare |
Mercurio |
3,0256 |
58,16462 |
0 |
Venere |
1,81 |
243,0185 |
0 |
Terra |
465,11 |
0,997258 |
0,00335 |
Marte |
241,17 |
1,025957 |
0,00736 |
Giove |
12.580 |
0,413538 |
0,064 |
Saturno |
9.870 |
0,449375 |
0,09796 |
Urano |
2.590 |
0,71833 |
0,0229 |
Nettuno |
2.680 |
0,67125 |
0,0171 |
Analizzando un po' i dati, risulta che Mercurio e Venere sono due pallette quasi perfette, senza alcuno schiacciamento polare. Mercurio ha un diametro equatoriale ed un diametro polare di 4.879,4 chilometri, quindi il rapporto viene esattamente (1 - 1) pari a zero. Per Venere si ha la stessa situazione, con diametro polare e diametro equatoriali pari a 12.103,6 chilometri. Questo è in linea con la lenta velocità di rotazione dei due pianeti rispetto a quella degli altri.
Marte, il terzo in ordine di velocità di rotazione, ha uno schiacciamento superiore a quello terrestre nonostante la Terra sia più veloce di poco meno del doppio. In realtà i due pianeti sono molto simili: la dimensione di Marte è quasi la metà della dimensione terrestre e la sua velocità di rotazione è quasi la metà di quella terrestre, quindi lo schiacciamento polare dei due pianeti, sebbene non uguale, è molto simile e differisce soltanto per lo 0,004.
Urano e Nettuno hanno parametri molto simili, un po' come Marte e Terra sebbene la maggior velocità della coppia di pianeti gassosi rispetto alla coppia di pianeti terrestri produca una forma più ovalizzata rispetto a quanto appare per Terra e Marte. Due pianeti che ruotano molto velocemente, come Saturno e soprattutto Giove, sono invece molto schiacciati tanto da risultarlo anche all'osservazione telescopica. Giove è il pianeta che ruota più velocemente di tutti, con 12.580 metri percorsi ogni secondo anche se si tratta di una media dal momento che Giove, come i pianeti gassosi e lo stesso Sole, ha una rotazione differenziale (varia in base alla latitudine presa in considerazione).
La rotazione di Giove ripresa dalla Voyager. Come corpo gassoso, oltre a variare la direzione, a
ciascuna latitudine corrisponde una differente velocità di rotazione. Crediti NASA
Per quanto riguarda le durate del giorno, come si nota, il giorno marziano (chiamato Sol) dura circa 24 ore e 37 minuti quindi è il più simile a quello terrestre. Ben 58 giorni terrestri ci vogliono per fare un giorno di Mercurio, mentre su Venere ce ne vogliono ben 243. Giove e Saturno presentano una durata giornaliera pari circa alla metà del nostro giorno comune, mentre una via di mezzo tra Terra e Giove è data dai pianeti più lontani, come Urano e Nettuno.
Discorso a parte merita l'inclinazione degli assi di rotazione dei vari pianeti solari. Più o meno sembrerebbero tutti appartenere allo stesso sistema planetario dal momento che tutti presentano valori più o meno simili, dove le differenze possono essere fatte risalire al numero più o meno alto di impatti subiti. Due eccezioni sono tuttavia presenti in maniera molto eclatante ed è sufficiente un breve sguardo alla tabella seguente per rendersene conto:
Inclinazioni assiali
Pianeta |
Inclinazione assiale ° |
Mercurio |
0 |
Venere |
177.3 |
Terra |
23.27 |
Marte |
25.19 |
Giove |
3.13 |
Saturno |
26.73 |
Urano |
97.55 |
Nettuno |
28.48 |
|
|
Come si nota, Mercurio e Giove hanno assi di rotazione quasi perpendicolari all'eclittica mentre Terra, Marte, Saturno e Nettuno si aggirano più o meno sugli stessi livelli di inclinazione assiale.
Le eccezioni eclatanti sono rappresentate da Venere ed Urano: Venere sembra ruotare al contrario rispetto al senso di rotazione di tutti i corpi del Sistema Solare, mentre Urano sembra rotolare più che ruotare. Come accennato, si tratta di eccezioni che comunque non mettono più dubbi sull'appartenenza di questi due pianeti alla formazione originaria del Sistema Solare. Le differenze sono legate essenzialmente agli impatti subiti da questi pianeti ad opera di asteroidi o altri corpi celesti notevoli. Impatti fuori asse, infatti, hanno portato l'asse dei pianeti ad inclinarsi maggiormente.
Una animazione per il confronto delle inclinazioni e dei tempi di rotazione per i pianeti del Sistema Solare. Crediti nell'immagine.
Rivoluzioni a confronto e implicazioni
La rivoluzione è il moto che i pianeti effettuano intorno al Sole e che si traduce nelle loro orbite. Legata al periodo di rivoluzione è la durata dell'anno, che sulla Terra sappiamo essere di 365,25 giorni circa. Sappiamo che pianeti più lontani dal Sole hanno velocità minori rispetto ai pianeti più vicini (percorrono segmenti di orbita minori per un dato periodo di tempo) e che, date la velocità e la distanza, impiegano molto tempo a compiere un'orbita. Ma quanto tempo impiegano i singoli pianeti?
Rivoluzione e parametri orbitali
Pianeta |
Vel. rivoluzione (m/s) |
Durata anno |
Distanza media km |
Perielio km |
Afelio km |
Inclinazione ° |
Eccentricità |
Mercurio |
47.360 |
87,96935 g |
57.900.000 |
46.001.272 |
69.817.079 |
7° |
0,2056 |
Venere |
35.020 |
224,70059 g |
108.208.926 |
107.476.002 |
108.941.849 |
3°,4 |
0,0067 |
Terra |
29.783 |
365,26 gg |
149.597.887,5 |
147.098.074 |
152.097.701 |
1°,57 |
0,0167 |
Marte |
24.077 |
1,88 anni |
227.936.637 |
206.644.545 |
249.228.730 |
1°,9 |
0,0935 |
Giove |
13.056 |
11,87 anni |
778.412.027 |
740.742.598 |
816.081.455 |
1°,9 |
0,0489 |
Saturno |
9.639 |
29,45 anni |
1.426.725.413 |
1.349.467.375 |
1.503.983.449 |
2°,5 |
0,0565 |
Urano |
6.800 |
84,07 anni |
2.870.972.220 |
2.735.555.035 |
3.006.389.405 |
0°,8 |
0,0457 |
Nettuno |
5.432 |
164,90 anni |
4.498.252.900 |
4.459.631.406 |
4.536.874.325 |
1°,8 |
0,0113 |
I dati confermano quanto ovvio: più il pianeta è lontano e più tempo ci vuole per finire un'orbita e quindi man mano che ci si allontana dal Sole la durata dell'anno aumenta, mentre la velocità di rivoluzione diminuisce. Un anno sul pianeta Nettuno, il più lontano dal Sole, dura ben 164,9 anni terrestri. Una curiosità riguarda Venere: il giorno venusiano dura 243 giorni terrestri mentre un anno venusiano dura 224 giorni terrestri, con la conseguenza paradossale per noi che un giorno dura più di un anno.
Rivoluzione dei pianeti nel Sistema Solare, non in scala.
Crediti nell'immagine
Il discorso sembra variare quando si tirano in causa le comete di lungo periodo: uno studio del 2020 - infatti - sembra indicare l'esistenza di un secondo piano di allineamento oltre all'eclittica. Da tempo è noto come le comete di lungo periodo non seguano il piano dei pianeti e proprio per questo si ipotizza l'esistenza di una Nube di Oort, sferica, dalla quale possano avere origine. I modelli di formazione dicono tuttavia che anche queste comete si siano formate nei pressi dell'eclittica prima di sparpagliarsi nel Sistema Solare tramite le interazioni gravitazionali, in particolare con i giganti gassosi. Anche in tal caso, tuttavia, l'afelio dovrebbe rimanere prossimo al luogo di nascita e per spiegare la distribuzione osservata occorre tirare in causa ulteriori forze esterne come il campo gravitazionale galattico. Tenendo conto di questo campo, l'afelio delle comete di lungo periodo tende a raccogliersi intorno a due piani, dei quali uno è l'eclittica e un secondo è l'"eclittica vuota", inclinata rispetto al disco della Via Lattea di circa 60° così come l'eclittica classica ma in direzione opposta. Le previsioni sembrano confermate da calcoli numerici effettuati al supercomputer, evidenziando una distribuzione a due picchi come previsto (Arika Higuchi. Anisotropy of Long-period Comets Explained by Their Formation Process, The Astronomical Journal - 2020).
Rappresentazione dell'eclittica vuota. Credit: NAOJ
Un fattore importate è la forma dell'orbita, che può essere studiata sotto due punti di vista differenti: l'eccentricità, e quindi lo scostamento rispetto ad un cerchio perfetto intorno al Sole, e poi l'inclinazione dell'orbita stessa rispetto all'eclittica. Per quanto riguarda l'eccentricità, l'orbita più allungata è quella di Mercurio mentre il cerchio quasi perfetto è quello tracciato da Venere intorno alla nostra stella. In ogni caso, a parte Mercurio i pianeti solari sono poco eccentrici e le orbite sono quindi abbastanza regolari. Ogni pianeta ha un proprio piano orbitale, inclinato più o meno rispetto all'eclittica e delimitato dalla propria orbita. In realtà le inclinazioni sono tutte più o meno simili, se è vero che tutti i pianeti, comunque, possono essere visti bene o male lungo gli stessi percorsi (l'eclittica , appunto). Rispetto al piano orbitale terrestre, tutte le orbite sono comprese in 5° tranne quella di Mercurio.
Ultimo aggiornamento del: 30/09/2020 17:44:15
Migrazione planetaria (Grand Tack) e bombardamento tardivo (Late Heavy Bombardment - LHB)
La storia del Sistema Solare deve essere passata per periodi catastrofici giustificabili con la migrazione dei pianeti più grandi come Giove e Saturno. Un modello, il Grand Tack, sembra poter spiegare le anomalie del Sistema Solare rispetto ad altri
C'è, come evidente, ancora estrema incertezza sulla storia evolutiva del Sistema Solare ma due eventi sembrano ormai aver ottenuto approvazione da parte degli scienziati: si tratta della migrazione dei pianeti e del bombardamento intenso tardivo.
Migrazione dei pianeti - Grand Tack
L'attore principale del Sistema Solare primordiale sembra essere stato il pianeta Giove. Oggi vediamo Giove a una distanza di 5.2 UA dal Sole mentre la sua origine potrebbe essere avvenuta a una distanza compresa tra 3 e 5 UA di distanza (con preferenza per le 3.5 UA), in contemporanea all'assestamento del Sistema Solare interno. Giove acquisiva massa dal disco interno, sottraendo materiale a Marte rimasto quindi piccolo, e acquisendo massa diventava più pesante avvicinandosi, di conseguenza, al Sole fino a raggiungere 1.5 UA di distanza dalla stella (Type II migration - un pianeta abbastanza massivo apre un gap nel disco gassoso). Il processo, che ha impiegato circa settantamila anni, sarebbe stato definitivo fino a rendere Giove un hot Jupiter se al tempo stesso non si stesse formando, e stesse migrando verso l'interno, anche Saturno, più distante rispetto a Giove ma più piccolo e quindi più veloce a migrare (Type I migration - i pianeti più piccoli subiscono risonanze di Lindblad e onde di densità del gas circostante), il quale ben presto (centomila anni dall'inizio) entrò in risonanza orbitale 2:3 con Giove. La risonanza portò i due pianeti a migrare insieme: Saturno piliva parzialmente la propria parte del gap riducendo la forza su Giove esercitata dal disco esterno. La forza netta dei pianeti divenne positiva, con le risonanze di Lindblad dei pianeti interni che vinserò la forza del disco esterno e costrinsero i pianeti a migrare di nuovo verso l'esterno. La presenza di Giove e Saturno a una distanza così ridotta dal Sole avrebbe alterato le orbite dei corpi minori e dei pianeti rocciosi in formazione, aumentandone l'eccentricità fino a espellere alcuni corpi celesti minori dal Sistema Solare stesso. Il processo sarebbe lo stesso che, ad esempio, avrebbe espulso l'oggetto interstellare I'1 Oumuamua dal proprio sistema planetario spedendolo a far visita al Sistema Solare nel 2017.
La risonanza instaurata tra i pianeti ebbe come effetto, quindi, un nuovo allargamento dell'orbita di Giove e di Saturno, che tornarono rispettivamente verso le 5 UA di distanza in un tempo di circa centomila anni, e fino alle 7 UA di distanza prima di venir definitivamente spostato dove si trova oggi.
Rappresentazione schematica del Grand Tack. Crediti http://creationicc.org
Come accennato, le conseguenze sono state notevoli sul sistema interno:
- Giove sottrasse materiale per la formazione di ulteriori pianeti, il che può spiegare anche la mancanza di SuperTerre;
- limitò la crescita di Marte. A completezza di argomentazione, secondo altri scienziati Marte potrebbe essersi formato laddove oggi vediamo la Fascia degli Asteroidi prima di migrare dove si trova oggi;
- alterò l'orbita di molti corpi minori, modellando quella che oggi è la Fascia Principale degli Asteroidi ma spedendo anche oggetti interni verso la Fascia di Kuiper, tanto che anche oggi si scoprono oggetti con caratteristiche fisiche e chimiche tipiche del Sistema Solare interno ma posti verso le zone più esterne (un esempio è il corpo celeste 2004 EW95 (articolo su AstronomiAmo);
- annullò l'abitabilità di Venere (al netto della vita sospesa, eventualmente) a causa dei cambiamenti climatici indotti, in grado di far disperdere tutta l'acqua nell'atmosfera fino a divenire ciò che vediamo oggi. Fino a quel momento Venere potrebbe aver avuto una eccentricità orbitale di 0.3, più adatta al mantenimento della vita (Stephen R. Kane et al, Could the Migration of Jupiter Have Accelerated the Atmospheric Evolution of Venus?, The Planetary Science Journal - 2020)
- Con tutte queste orbite alterate, è ovvio pensare come molti corpi celesti iniziarono a colpire gli altri, con particolare riguardo i pianeti e i satelliti interni come la Luna, in un periodo che viene chiamato Late Heavy Bombardment, che vedremo a breve.
Tutto questo scombussolamento sembrerebbe aver fatto perdere le tracce della zona di formazione dei singoli pianeti del Sistema Solare ma in realtà un modo per ricostruire il tutto esiste ed è legato a isotopi trovari nelle meteoriti originarie dei singoli pianeti solari. Così, a inizio 2021 un team di scienziati ha preso campioni di condriti basaltiche per misurare le firme isotopiche di neodimio e zirconio mostrando come questi elementi siano caratterizzati da un relativo deficit negli elementi del materiale presolare. Il materiale presolare, in finale, era distribuito come un gradiente nel Sistema Solare primordiale e confrontando questi isotopi con i proxies della ricostruzione del Sistema Solare è possibile risalire alla posizione originaria dei singoli pianeti (Jan Render et al. Isotopic signatures as tools to reconstruct the primordial architecture of the Solar System, Earth and Planetary Science Letters - 2020).
E' andata così, allora? Come sempre, si tratta di teorie e così nel 2020 esce un nuovo lavoro che ridisegna la posizione originale di Giove e Saturno e vede l'espulsione di un pianeta nato tra Saturno e Urano. Seimila simulazioni sull'evoluzione possibile del Sistema Solare hanno rivelato un dettaglio inatteso sulla relazione originale di Giove e Saturno visto che la generalmente accettata risonanza 3:2 tra i due pianeti non può spiegare la configurazione che vediamo oggi. Una risonanza 2:1 sarebbe invece molto più vicina a fornire la situazione attuale. Oltre a questo, anche Urano e Nettuno hanno visto la propria orbita modellata dalla massa della Fascia di Kuiper e da un gigante ghiacciato poi espulso (Matthew S. Clement et al, Born eccentric: Constraints on Jupiter and Saturn's pre-instability orbits, Icarus - 2020).
Intenso bombardamento tardivo (Late Heavy Bombardment - LHB) e acqua
L'intenso bombardamento tardivo viene ricondotto a un periodo compreso tra 4.1 e 3.8 miliardi di anni fa, con un gran numero di impatti ai danni di Terra, Luna, Mercurio, Venere e Marte. La causa principale, tra quelle proposte, è proprio la migrazione dei pianeti giganti durante i primi tempi della formazione del Sistema Solare (modello Grand Tack) mentre tra le prove considerate schiaccianti a favore della teoria del LHB sono le rocce lunari riportate dalle missioni Apollo, le cui datazioni radiometriche vedono la fusione ricondurre proprio all'età indicata per il bombardamento stesso. Erano gli anni Settanta del secolo scorso quando l'idea del bombardamento venne sollevata da Fouad Tera, Dimitri Apanastassiou e Geral Wasserburg.
Late Heavy Bombardment. Crediti NASA/ESO
Durante la formazione planetaria le temperature dei corpi celesti erano troppo alte per mantenere una quantità di acqua superficiale, quindi è evidente come l'acqua che copre la Terra di oggi sia stata apportata successivamente proprio durante le collisioni con i corpi minori. Il nostro pianeta invece ne è ricoperto per il 71%, sebbene rappresenti soltanto lo 0,3% della massa terrestre. Proprio l'acqua è l'elemento determinante per lo sviluppo ed il mantenimento della vita per come noi la conosciamo. Certo, su altri mondi la vita potrebbe svilupparsi su chimiche molti diverse come silicio e idrocarburi, ma proprio per questo parliamo di vita "come la conosciamo noi". Contrariamente a ciò che si pensa, la molecola d'acqua è molto presente nell'universo e si è accumulata nei nostri dintorni a partire dalla nebulosa solare che ha dato origine alla nostra stella ed ai nostri pianeti. La formazione dei pianeti è avvenuta tramite collisione di planetesimi, in grado di innalzare di molto la temperatura il che, unito alla vicinanza con il Sole, dovrebbe aver fatto evaporare l'acqua originaria. Come ci è tornata?
Le molecole di acqua sono composte di idrogeno ed ossigeno e rappresentano il terzo elemento più comune nell'universo in termini di abbondanza, eppure è raro che questi due elementi vengano a collidere nella misura di due atomi di idrogeno (H2) e uno di ossigeno (O) visto che l'estensione della nube originaria è immensa e la sua densità è bassissima. Il merito di facilitare queste collisioni spetta alle polveri, minuscoli granelli che rappresentano circa un centesimo della massa gassosa. Gli atomi di idrogeno ed ossigeno che si urtano, infatti, si diffondono sulla superficie di questi granelli incrementando la loro concentrazione e favorendo, quindi, ulteriori scontri. Le polveri si coprono quindi di uno spesso mantello ghiacciato, formato da acqua e altre sostanze volatili. Parte dei materiali creati viene così protetta dai raggi ultravioletti del Sole, che li dissocierebbero subito, e si conserva a qualche decina di gradi Kelvin , dando vita al ghiaccio amorfo.
Fino a poco tempo fa esisteva una linea della neve ben definita, corrispondente al punto in cui - all'epoca della formazione del Sistema Solare - smettevano di formarsi corpi rocciosi per dar vita ai corpi gassosi o ghiacciati come i pianeti giganti, le comete e i satelliti dei pianeti giganti. In una tale figura, idea dominante era ricondurre la provenienza dell'acqua terrestre ad un impatto cometario. Una cometa , ghiacciata perché proveniente dalla parte al di là della linea della neve, impattando con la Terra avrebbe apportato una grande quantità di acqua. La linea della neve era quindi posta nella zone più esterna della Fascia Principale degli Asteroidi, poco prima di Giove. Una grande spallata a questa teoria derivò dallo studio di alcune comete come la Halley, la Hyakutake e la Hale Bopp. La loro composizione, infatti, non corrispondeva a quella presente negli oceani terrestri: il rapporto tra idrogeno e deuterio (isotopo pesante dell'idrogeno) era diverso. Ancor più schiacciante la prova ottenuta dall'analisi "in loco" della cometa 67P Churyumov-Gerasimenko effettuata dalla sonda Rosetta. E allora non sono state le comete a portare acqua sulla Terra. E chi altri?
Non è antica la scoperta di strani oggetti all'interno della Fascia Principale degli Asteroidi. Negli anni Novanta infatti si iniziò a notare che alcuni asteroidi presentavano chiome e code proprio come le comete. Se inizialmente si assegnò la motivazione a impatti tra asteroidi, fu in seguito chiaro come le sembianze cometarie fossero dovute proprio alla presenza di ghiaccio in sublimazione. Questi oggetti furono chiamati "comete della fascia principale". Nel momento in cui giungono al perielio inizia la [V]sublimazione[/V], la quale si manifesta anche in seguito a collisioni che privano il ghiaccio dello strato che, rivestendolo, lo protegge dall'alta temperatura solare. La scoperta di questi oggetti gettò la sua ombra definitiva sulla linea della neve: oggetti ghiacciati laddove non ne erano previsti alteravano sensibilmente il perimetro di questa linea. Ma allora non è che l'acqua proviene da questi asteroidi? In fondo nel 2005 le foto di Hubble portarono a capire come Cerere, di forma sferica e con bassa densità, probabilmente sia coperto da uno strato di ghiaccio. I dati parlano di uno strato di ghiaccio di circa 100 chilometri di spessore, coperto a sua volta da uno strato opaco e sottile di minerali idrati. A sostenere questa tesi ci sono i messaggeri degli asteroidi: le meteoriti che giungono sul nostro suolo. Molte presentano minerali che incorporano molecole di idrossido (OH), che potrebbero essere ciò che resta di scorte iniziali di ghiaccio poi sciolto, ma nonostante questo l'ipotesi venne a lungo sottovalutata. Il 29 aprile del 2010, invece, sulla rivista Nature appare uno studio fondamentale: un gruppo di ricercatori guidati da Humberto Campins dell'Università della Florida studiando lo spettro elettromagnetico dell'asteroide (24) Themis, notarono un avvallamento alla lunghezza di 28 micrometri, alla quale l'acqua sotto forma di ghiaccio assorbe l'infrarosso . Il risultato era del tutto inatteso, visto che Themis dista soltanto 3.1 Unità Astronomiche dal Sole e tutto il ghiaccio, alle reletive temperature elevate dell'asteroide, doveva essere già evaporato del tutto. E perché è ancora li? Il motivo più acccreditato è fatto risalire ad una antica collisione con una cometa: l'acqua proveniente da questo corpo ghiacciato è stata poi trattenuta negli strati più interni dell'asteroide, coperta dai raggi solari da uno spesso strato di polveri interplanetarie. L'acqua di Themis è la stessa di quella terrestre? Abbiamo visto come quella cometaria abbia un rapporto idrogeno-deuterio diverso dal "nostro", ma purtroppo non è possibile fare lo stesso calcolo per l'asteroide perché non ci sono chiome o code da analizzare. Anche le meteoriti ritrovate a Terra sono strumenti incerti visto che non sappiamo da quali asteroidi provengano. L'unico modo sarebbe andare a raccogliere campioni direttamente sull'asteroide, cosa che viene oggi fatta regolarmente dalle missioni Hayabusa, Hayabusa2 e OSIRIS-REx. Ad esempio, all'interno del cratere di 20 chilometri Juling, nell'emisfero sud di Cerere, lo strumento VIR a bordo della sonda Dawn ha rinvenuto ghiaccio di acqua, precisamente nella parete nord alta 4 chilometri e quasi verticale. Luce diretta la parete ne vede davvero pochissima, ma giunge la radiazione riflessa dal fondo del cratere. Sulla parete stessa la quantità di ghiaccio è aumentata nel corso di sei mesi, passando da una copertura ghiacciata del 9% a una del 14% pari a circa due chilometri quadrati in più. La motivazione starebbe nel vapore d'acqua che condensa sulla parete fredda: il ghiaccio presente sotto la polvere posta sul fondo del cratere sublima per la radiazione e va a condensare sulla parete. Una prova a favore risiede infatti proprio nell'aumento del ghiaccio legato al maggior flusso solare derivante dal cambio di stagione e dall'imminente perielio di Cerere.
A favore degli asteroidi gioca anche uno studio di fine 2021 che analizza l'apporto di acqua su questi oggetti - e in seconda battuta sulla Terra - da parte del vento solare: gli asteroidi di tipo C sono tra i maggiori indiziati ma non c'è molta corrispondenza con l'acqua terrestre, quindi sembra mancare un'altra fonte che potrebbe trovare origine proprio nel Sole. Il vento solare, interagendo con i grani di polvere sulla superficie degli asteroidi, potrebbe aver formato acqua e una conferma proverrebbe da Itokawa, un asteroide di tipo S i cui campioni sono stati raccolti e analizzati grazie alla missione giapponese Hayabusa a novembre 2005. Proprio da queste analisi è stata dedotta una presenza di acqua di 20 litri per metro cubo di roccia nei primi strati superficiali, qualcosa di evidentemente molto consistente (Nature Astronomy - “Solar wind Contributions to the Earth’s Oceans” - Luke Daly et al.)-
Visti i dubbi sull'arrivo dell'acqua sulla Terra, si potrebbe sperare che ci sia più concordanza sul "quando" quest'acqua sia arrivata. Ma ovviamente anche qui ci sono tante ipotesi, che vanno dal bombardamento appena successivo alla formazione planetaria, durante il quale ha preso vita la Luna e che avrebbe trasformato la Terra in un calderone di lava incandescente in grado di far evaporare tutta l'acqua, al periodo del Late Heavy Bombardment. Una possibile migrazione planetaria, soprattutto di Giove e Saturno, potrebbe aver destabilizzato le orbite degli asteroidi, alcuni dei quali avrebbero impattato la Terra rilasciando il loro carico di acqua. Sono tutte ipotesi, ed un modo per avvalorarne una anziché un'altra sta nel cercare indizi non solo nello spazio ma anche nella Terra stessa. Le rocce più antiche che abbiamo a disposizione sono vecchie di 4 miliardi di anni, e l'erosione e la deriva dei continenti cancellano ogni traccia della storia terrestre. Tuttavia ci sono piccoli minerali, noti come zirconi, che mantengono intatte le informazioni riguarda l'ambiente nel momento della loro formazione. Alcuni, risalenti a ben 4,38 miliardi di anni fa, mostrano la maggior presenza di Ossigeno-18 rispetto all'Ossigeno-16, a mostrare come la formazione sia avvenuta in acqua liquida. Questo fatto induce a spostare l'arricchimento di acqua a 4,4 miliardi di anni fa, molto presto rispetto alla nascita del nostro pianeta. La stima di come e quando sarebbe molto più affinata se solo conoscessimo la quantità di acqua non superficiale che possiede la Terra, visto che le stime vanno da 10 masse oceaniche ad una sola massa oceanica. Il discorso, tuttavia, sembra far convergere su un punto: non si cerca più una soluzione unica ma un mix di possibili provenienze. Ed è chiaro che trattandosi di un mix anche le percentuali di idrogeno e deuterio sono il risultato di un miscuglio rintracciabile molto difficilmente nei singoli oggetti solari. Il bombardamento pesante potrebbe, al tempo stesso, essere spostato in fasi ancora precedenti rispetto a quanto pensato e potrebbe non essere stato poi così "pesante", anche se più duraturo, il che potrebbe portare a una revisione anche in termini di formazione terrestre. Sono le meteoriti a parlarci di questo periodo e in particolare quelli provenienti da Vesta, il secondo asteroide più grande dopo Ceres. Vesta sarebbe stato colpito da più corpi in un tempo che va da 4.4 a 4.15 miliardi di anni fa, quindi prima del periodo "classico" al quale viene fatto risalire il bombardamento pesante tardivo (3.9 miliardi di anni fa più o meno) in base allo studio delle rocce riportate dalla missione Apollo (Mizuho Koike et al. Evidence for early asteroidal collisions prior to 4.15 Ga from basaltic eucrite phosphate U–Pb chronology, Earth and Planetary Science Letters - 2020).
Una serie di simulazioni i cui risultati sono pubblicati a fine 2020 mostrano ulteriori tasselli sull'origine dei corpi minori che possono aver trasportato acqua nel Sistema Solare interno e questi tasselli sono basati sul magnetismo. Si è inizialmente pensato che il magnetismo delle prime condriti carbonacee potesse derivare da un nucleo interno, così come per la Terra, ma lo studio del meteorite Allende - tra i più famosi - fa optare per una magnetizzazione indotta dall'esterno, dal vento solare per la precisione. Attraverso il magnetismo è possibile risalire alla posizione dei corpi celesti originari nelle prime fasi di formazione del Sistema Solare. In base a questo dato è stato possibile verificare come i corpi progenitori delle condriti carbonacee siano arrivati nella fascia degli asteroidi circa 4.562 milioni di anni fa, quindi entro i primi cinque milioni di anni dalla formazione del Sistema Solare. Una simile spiegazione spezza una ulteriore lancia anche alla teoria del Grand Tack di Giove (Timothy O'Brien et al, Arrival and magnetization of carbonaceous chondrites in the asteroid belt before 4562 million years ago, Communications Earth & Environment - 2020).
L'acqua terrestre è presente come liquido, ghiaccio e vapore. Vapore acqueo si trova nelle galassie più lontane e nel mezzo interstellar e, mentre le zone vicine a noi sono ricche di ghiaccio.
- Mercurio è il pianeta più vicino al Sole con una temperatura di 400°C nelle regioni illuminate, eppure la grande riflettività di alcune zone polari sembrano proprio raccontare una storia di ghiaccio per questo pianeta, soprattutto perché le zone a maggior riflessione coincidono con le zone più depresse del pianeta, sempre in ombra. Dal momento che Mercurio ha un piano equatoriale perfettamente in linea con la sua orbita, i raggi del Sole giungono come tangenti ai poli e non entrano mai nei crateri più profondi, che restano a -180°C. L'acqua interna a questi crateri, proveniente da impatti cometari o asteroidali oppure dal degassamento di rocce interne, è quindi rimasta allo stato ghiacciato.
- Venere è un pianeta caldissimo a causa del suo spessissimo strato di nubi di biossido di carbonio e zolfo. L'effetto serra porta la temperatura a 450°C, che impedisce la presenza di ghiaccio.
- La Luna stiamo imparando a conoscerla proprio in questi anni, ma già nel 1998 il Lunar Prospector lasciò pensare che i poli lunari potessero ospitare acqua ghiacciata, proveniente forse da asteroidi e comete. Le conferme sono giunte dalle sonde LRO della NASA e dalla Chandrayaan-1 cinese, tramite visione diretta nei crateri polari e tramite, soprattutto, l'analisi dei detriti sollevati dalla straordinaria missione LCROSS. La prova definitiva della presenza di ghiaccio di acqua ai poli lunari viene a Agosto 2018, in antichi depositi polari. I depositi coincidono con i crateri lunari nella regione sud-polare mentre nell'emisfero nord sono decisamente più sparsi (anche se sempre nella zona polare). I dati vengono dal Moon Mineralogy Mapper (M3) della NASA, a bordo della sonda Chandrayaan-1 lanciata nel 2008 dalla Indian Space Research Organization. Le prove consistono nella misura dell'albedo , in linea con le attese, e dal modo unico in cui le molecole assorbono la luce infrarossa, fattore chiave per distinguere acqua liquida da ghiaccio di acqua. La stragrande maggioranza dei depositi si trova nelle zone perennemente in ombra del nostro satellite e la presenza di acqua nei primissimi millimetri superficiali equivale alla presenza di riserve accessibili alle future spedizioni esplorative.
- Su Marte i dubbi sono minori. Al polo nord del pianeta rosso, infatti, è presente una calotta ghiacciata che si estende su una superficie doppia rispetto a quella dell'Italia e spessa centinaia di metri. Marte ha una temperatura media di circa -55°C ed il terreno è perennemente congelato. La bassa pressione fa sì che il ghiaccio esposto al Sole non diventi liquido, sublimando direttamente.Il discorso sugli asteroidi è stato già trattato parlando della fonte di acqua. Alcuni dei corpi della fascia mostrano anche una attività cometaria, con una sublimazione che li dota di un aspetto tipico delle comete, con chioma e coda. Esempi ne sono 133P/Elst-Pizarro, P/2005 U1 (Read) e P/2008 R1 (Garradd).
- Pianeti Esterni - Laddove si poteva pensare che l'acqua fosse presente in percentuale maggiore, la sonda Galileo ha fornito invece risultati del tutto diversi. Questo vale per Giove e per Saturno, che rivelano soltanto piccole quantità di ghiaccio. Urano potrebbe contenere ghiaccio fino ad un decimo della propria massa: un nucleo roccioso avvolto da uno strato ghiacciato a sua volta avvolto da idrogeno ed elio gassosi. In tali condizioni, il ghiaccio non sarebbe del tutto solido ma sarebbe un fluido molto denso. Anche su Nettuno sono presenti particelle di acqua ghiacciata nell'atmosfera.
- Satelliti - Ghiaccio superficiale è stato trovato con certezza su diverse lune di Giove e Saturno e sulle lune principali di Urano e Nettuno, nonché su Plutone. La presenza dovrebbe essere dovuta a bombardamenti massicci avvenuti circa 4 miliardi di anni fa, che hanno creato anche crio-vulcani (vulcani che anziché lava espellono sostanze volatili). Vulcani del genere sono essere presenti su Europa, Ganimede, Titano, Miranda e Tritone. Encelado, satellite di Saturno, è invece "alimentatore" dell'anello E tramite le sue eruzioni di ghiaccio. In realtà la gran parte degli anelli di Saturno è composta da tantissimi oggetti inferiori al metro di diametro in gran misura composti da acqua ghiacciata. L'anello più esterno di Urano dovrebbe essere composto anche dal ghiaccio fornito dal satellite Mab. Giapeto di Saturno e Tritone di Nettuno sembrano contenere grandi scorte superficiali di ghiaccio.
- TNOS - Oltre Nettuno ci sono due sacche di comete, corpi ricchissimi di acqua: sono la Cintura di Kuiper e la Nube di Oort dalle quali originano le comete, rispettivamente, di breve e di lungo periodo. Ma non solo visto che secondo uno studio del Goddard Space Flight Center (Icarus, Novembre 2017) la zona oltre Nettuno può essere ricca di corpi catturati gravitazionalmente e che, sottoposti a forze mareali intense, possono contenere oceani sotterranei di acqua molto longevi. Questi luoghi si conterebbero, nel Sistema Solare, a dozzine. Si tratta di oggetti noti come Trans-Nettuniani (TNO) e sono troppo freddi per avere acqua in superficie, con temperature al di sotto dei -200°C. Alcuni, però, potrebbero avere oceani sotterranei visto che rivelano densità simili a quelle di Europa e Encelado e spettri che evidenziano ghiaccio di acqua e ammoniaca idrata. Alle temperature di queste fasce orbitali, il ghiaccio di acqua dovrebbe trovarsi in forma amorfa e non cristallina e anche la radiazione dello spazio tende a convertire il ghiaccio di acqua nella forma amorfa spezzando gli idrati amorfi, quindi strutture di questo tipo non dovrebbero durare a lungo in zone così fredde e distanti. I composti potrebbero quindi provenire dall'interno, da un oceano sotterraneo emerso tramite criovulcanismo. Il calore interno ai TNO proviene in gran parte dal decadimento radioattivo di elementi presenti negli oggetti stessi e questo calore potrebbe essere abbastanza da fondere uno strato di crosta ghiacciata generando un oceano sub-superficiale in grado di mantenersi per miliardi di anni. Calore addizionale può provenire dalle forze mareali, dalle interazioni gravitazionali di una luna, specialmente se formatasi tramite impatti e collisioni. Il team NASA ha applicato i modelli alle coppie Eris-Dysnomia e ad altri oggetti di nuova scoperta oltre Nettuno, scoprendo che il calore mareale può giocare un ruolo davvero interessante.
Il discorso non vale soltanto per l'acqua: sulla Terra molti elementi chimici presenti al momento della formazione planetaria sono stati distrutti per poi essere apportati di nuovo - successivamente - da asteroidi che hanno colpito il nostro pianeta così come gli altri, tanto è vero che oggi li utilizziamo: piombo, zinco, rame, argento e stagno. Altri elementi sono invece in sovrabbondanza sulla Terra, e un esempio è l'indio la cui origine è molto dibattuta. Alla University di Oxford sono stati attivati test di laboratorio nelle fornaci simulando la formazione del protopianeta Terra, dimostrando come alcuni elementi volatili siano evaporati prima dell'arrivo sul pianeta a causa della reazione tra roccia fusa dei protopianeti e una atmosfera povera di ossigeno. Stessa strada, di apporto successivo, è stata percorsa dall'acqua.
Bombardamenti successivi
Il cratere Copernico. Crediti: Osaka University
La storia del Sistema Solare non ha visto, comunque, soltanto grandi bombardamenti iniziali ma anche eventi minori più recenti e a dircelo può essere la Luna, visto che la Terra con la sua tettonica tende a cancellare gli indizi più remoti. Dalle immagini ad alta risoluzione ottenute dalla sonda giapponese Kaguya, quindi, è stato possibile risalire alla distribuzione e alla datazione di circa sessanta crateri lunari con diametro superiore ai 20 chilometri, effettuando uno studio di tipo crater-size-frequency distribution measurement. Studiando le caratteristiche dei crateri piccoli posti nei pressi dei crateri giganti è possibile ottenere una buona stima dell'età di formazione di quest'ultimo. Il cratere Copernico, ad esempio, ha consentito di studiare 860 crateri "satelliti" e così è stato fatto per altri crateri maggiori, scoprendo come otto di questi si siano formati nello stesso periodo. La probabile causa è un bombardamento asteroidale avvenuto 800 milioni di anni fa, con un impattore di 10-13 chilometri e massa tra 1300 e 1600 tonnellate (forse progenitore di Eulalia). Legate a questo evento potrebbero essere le ere glaciali del criogeniano (Nature Communications - “Asteroid shower on the Earth-Moon system immediately before the Cryogenian period revealed by KAGUYA” - Kentaro Terada et al.)
Ultimo aggiornamento del: 04/12/2021 15:42:07
La stabilità del Sistema Solare
Oggi assistiamo a movimenti planetari ben precisi e effemeridi in grado di dirci dove si troverà un pianeta tra cento anni. Ma tutto resterà sempre così oppure la stabilità del Sistema Solare è sempre a rischio di variazioni?
Oggi assistiamo ad eventi più o meno catastrofici sul nostro mondo, molti provocati dall'uomo come la fuoriuscita di petrolio nell'oceano ed il conseguente danneggiamento di un ecosistema che nessun dollaro di nessuna multa potrà mai sanare. Parliamo di surriscaldamento globale e di altre catastrofi, come terremoti o eruzioni vulcaniche, che spesso portano a pensare a una prossima dipartita della razza umana dal pianeta Terra. Ci preoccupiamo, a ragione, di ciò che accade sulla Terra ma spesso diamo per scontato che il Sistema Solare non ci produrrà alcun tipo di problema, anche se negli ultimi anni l'introduzione di Asteroid Day ha avuto il pregio di sensibilizzare, e non poco, sui rischi che provengono dal cielo.
Il 2009 e il 2010 hanno visto ben due impatti su Giove, dopo quello del 1994, innalzando decisamente la statistica che prevedeva un impatto ogni secolo ed ancora di più. Sempre nel 2009 una strana macchia su Venere ha fatto pensare ad un altro impatto, stavolta nel Sistema Solare interno. Un lampo sulla Luna durante l'eclisse del 2019 ha fatto ricordare che impatti possono riguardare tutti, anche noi. Guardando ai sistemi planetari finora scoperti, notiamo una grandissima predominanza di pianeti giganti gassosi, tipo Giove, in orbite più strette di quelle di Mercurio. Troviamo orbite allungate, eccentriche, che sono la prova di eventi intervenuti ad alterare gli equilibri. Il nostro Sistema Solare è davvero stabile come lo vediamo ora oppure dobbiamo aspettarci qualcosa?
Il gioco dei pianeti
Isaac Newton fu il primo a capire il movimento dei pianeti, spiegato attraverso la Legge di Gravitazione Universale. Ovviamente la descrizione precisa fu trovata prima da Keplero, ma era un qualcosa di puramente osservativo. Tramite la legge matematica di Newton, invece, è possibile conoscere la posizione di un pianeta nel futuro, o nel passato, semplicemente guardando dove si trova in questo momento e conoscendone la velocità. Non hanno senso le distinzioni tra i pianeti visto che i movimenti sono regolati dalle masse, ed il Sole contiene il 99,8% della massa dell'intero Sistema Solare. Di fronte al Sole, quindi Mercurio è uguale a Giove nonostante le loro dimensioni enormemente differenti. L'orbita di ogni pianeta può essere descritta indipendentemente, con il Sole ad occupare uno dei fuochi. Se così fosse, però, nessuno avrebbe motivo di dubitare che il Sistema Solare sia stabile, ed i pianeti continueranno a girare, come stanno facendo, per un tempo infinito, limitato soltanto dall'esaurimento del combustibile nel nucleo solare.
In realtà, ciascun pianeta esercita una debole forza gravitazionale su tutti gli altri corpi celesti e, sebbene minima, nel tempo possono crearsi configurazioni o somme di piccoli effetti tali da provocare mutamenti drastici negli equilibri di un sistema. Una prova è un allineamento di pianeti particolare che con cicli di undici anni va a influenzare l'attività solare e quindi la perdita di massa del nostro Sole.
Le orbite dei pianeti non sono ellissi pure, ma subiscono deviazioni. Per lungo tempo, però, i calcoli rimasero troppo complicati: era impossibile tener conto di tutte le influenze gravitazionali reciproche tra i vari corpi solari, tanto che lo stesso Newton arrivò a sostenere che "considerare simultaneamente tutte le cause dei moti planetari e descrivere questi moti con leggi esatte che ammettano calcoli semplici supera la forza di ogni mente umana". Toccò a Pierre-Simon de Laplace, nel 1776, risolvere questo problema di Grande Inégalité. Giove sembrava spiraleggiare sempre più verso il Sistema Solare interno; Saturno sembrava allontanarsene. Laplace capì che i pianeti stavano sperimentando oscillazioni orbitali periodiche, da migliaia di anni, intorno ad un punto medio, ed il motivo era dato dal fatto che Giove orbita intorno al Sole in rapporto quasi preciso di 5:2 rispetto a Saturno (risonanza). Questa risonanza fa sì che le perturbazioni reciproche dei due pianeti possano sommarsi sull'arco di secoli. Due forze, sebbene piccole, se ripetute all'infinito possono iniziare ad avere effetti tangibili nel lungo periodo. Partendo da questi assunti, Laplace iniziò una analisi dei movimenti planetari riportandoli indietro nel tempo e confrontando le posizioni così trovate con alcune situazioni storiche tramandate in maniera precisa. Gli scritti babilonesi documentano che il 1 marzo 228 a.C., alle 04H 23m ora di Parigi, Saturno si trova due dita sotto rispetto a gamma Virginis, e Laplace con il suo metodo riuscì a ricreare proprio questa situazione, dando vita al famoso determinismo laplaciano.
Una forzatura c'era, però. Laplace dava per scontato che i movimenti siano sempre uguali, stabili ma verso la metà dell'Ottocento il modello iniziò ad entrare in crisi nelle previsioni a lungo termine, tanto da istituire una borsa in denaro per chi avesse dimostrato la stabilità del Sistema Solare e delle orbite planetarie. A vincere fu Henri Poincaré, sostenendo la non risolvibilità del problema e l'impossibilità di determinare la posizione dei pianeti nel lungo termine.
Soluzioni numeriche
La necessità di calcolare le orbite precise per determinare i parametri di volo delle sonde, lo studio dei sistemi planetari non solari e l'aumentata capacità di calcolo dei computer attuali hanno spinto ad approfondire lo studio ed a giungere alla prova che in realtà il Sistema Solare è un sistema caotico e che previsioni nei movimenti planetari possono arrivare soltanto ad una scala di milioni di anni, molto inferiore rispetto all'età del Sistema Solare.
Un software ideato nel 1995 da Jacques Laskar riesce a creare possibili scenari a partire da un unico punto ed a reiterare le analisi a partire da uno qualunque degli scenari di arrivo. Analizzando le posizioni dei pianeti nei vari possibili scenari da qui a mezzo miliardo di anni, è stato notato che i giganti gassosi non mostrano segni di instabilità: le loro orbite restano stabili e si ritiene che rimarranno così per quadrilioni di anni. I pianeti terrestri invece presentano notevoli cambiamenti, a volte del tutto catastrofici.
La pecora nera di tutto il sistema è proprio il pianeta apparentemente più innocuo, date le dimensioni: Mercurio. Il modello matematico di Laskar ha reiterato i calcoli partendo sempre dal punto di massima eccentricità di Mercurio: in alcuni dei modelli l'orbita di Mercurio ha assunto una eccentricità tale da incrociare l'orbita di Venere e, come si può ben immaginare, due orbite che si intersecano creano disastri. Un purista direbbe a questo punto che, dato che le orbite non sono ripulite, i due corpi celesti non sono più pianeti secondo la definizione IAU, ma a quel punto avrebbe poco interesse per il destino del Sistema Solare. Una situazione di avvicinamento tra pianeti, anche qualora non porti ad una collisione, può portare all'allontanamento di un pianeta nel migliore dei casi ed alla distruzione di uno o di entrambi i pianeti per le forze mareali incredibilmente forti che si sviluppano. Anche la Terra, in una situazione simile, potrebbe cavarsela con un gran numero di impatti asteroidali oppure potrebbe andare incontro alla distruzione totale.
Il Sistema Solare del futuro
I dati del modello di Laskar mostrano come il Sistema Solare è instabile di per sé, senza bisogno dell'aiuto di fattori esterni, e che potrebbero esserci risvolti imprevedibili ben prima che il Sole esaurisca il proprio combustibile nucleare. Anche prendendo i risultati di altri studi è venuto fuori un imputato maggiore: sempre Mercurio. La causa di questa instabilità del piccolo pianeta è l'influenza gravitazionale esercitata da Giove.
Le continue sollecitazioni tra i pianeti generano un insieme di deviazioni dalle orbite ellittiche, che si presentano soprattutto sottoforma di precessione orbitale. Ciò significa che l'asse maggiore dell'ellisse orbitale di un pianeta cambia direzione in modo tale che il punto in cui il pianeta è più prossimo al Sole si sposta, lentamente ma in maniera continua, sia in senso orario sia in senso antiorario. La precessione di Mercurio è di 0,16° all'anno mentre quella di Giove è di 0,23° all'anno, ma con il tempo la precessione di Mercurio può essere variata dall'influenza gravitazionale di Giove. Se variasse al punto da eguagliare quella di Giove, creando un caso di risonanza di lungo termine (secolare), Giove toglierebbe sempre più momento angolare all'orbita di Mercurio e l'eccentricità del piccolo pianeta aumenterebbe in maniera drammatica per il Sistema Solare stesso.
I modelli attuali mettono nel calderone dei dati anche gli effetti relativistici e le influenze dei corpi maggiori come Cerere e la Luna, e per fortuna tali dati modificano la velocità di precessione di Mercurio di 0,43'' all'anno, quanto basta per rendere davvero difficile una futura risonanza con Giove. Senza la Relatività Generale, la probabilità di una futura risonanza sarebbe di qualche decina percentuale (tantissimo!) mentre con gli effetti di Einstein la percentuale stessa scende al di sotto dell'1%, comunque non trascurabile. I modelli portano a differenti conclusioni, in linea con la teoria del caos. La Terra, quindi, può essere interessata da una collisione diretta con Marte oppure da un altrettanto catastrofico volo ravvicinato con il pianeta rosso, che avrebbe il risultato di fondere completamente mantello e crosta terrestre in seguito alle forze mareali.
Nulla comunque accadrà nel giro dei prossimi 50 milioni di anni, e le probabilità che qualcosa accada prima dell'esaurimento del Sole sono davvero basse.
Perdita di massa del Sole e orbite che si allargano
Il vento solare e la continua attività della nostra stella determinano una costante perdita di massa da parte del Sole e se varia la massa varia anche la forza gravitazionale espressa dalla nostra stella o, per dirla in termini Einsteniani, diminuisce la curvatura impressa allo spazio. Nei prossimi 7 miliardi di anni il Sole perderà più o meno la metà della propria massa e questo ha senz'altro effetto sulle orbite dei pianeti, i quali - quindi - tendono ad allargarsi man mano che il Sole perde massa.
La previsione dell'allargamento delle orbite nel Sistema Solare, a causa dell'invecchiamento e della perdita di massa del Sole, è stata confermata da uno studio a firma NASA e MIT a inizio 2018, misurando la perdita di massa solare e altri parametri legati all'orbita di Mercurio. Le misurazioni forniscono anche indicazioni sulla costanza effettiva della costante gravitazionale, G. Lo studio è partito migliorando le effemeridi di Mercurio, il pianeta che più di tutti subisce l'influenza solare, tramite il tracking radio operato sulla posizione della sonda MESSENGER durante il suo periodo di attività tra il 2008 e il 2015, prima con flyby e poi con orbite. Le variazioni nel moto di Mercurio sono quindi servite a comprendere più a fondo l'evoluzione del Sole e le dinamiche che influenzano le orbite planetarie, nonché la struttura interna e la forma esterna della nostra stella.
Alcuni dei parametri osservati sono stati separati dagli effetti relativistici sviluppando una nuova tecnica che stima e integra le orbite di MESSENGER e di Mercurio guidando verso una soluzione totale comprendente l'evoluzione solare. E' la prima volta che il tasso di perdita di massa da parte del Sole viene dedotto dalle osservazioni: a fronte di una teoria che vedeva la perdita di un decimo di punto percentuale in dieci miliardi di anni (incremento delle orbite planetarie di circa 1,5 centimetri per UA per anno, i nuovi valori rallentano questo processo lievemente e riducono l'incertezza, migliorando la stabilità della costante G di un fattore 10 (Solar system expansion and strong equivalence principle as seen by the NASA MESSENGER mission - Nature Communications (Antonio Genova et al.).
Non solo Mercurio, ovviamente, ma soprattutto le orbite dei pianeti giganti verranno allargate e le simulazioni dicono che i rapporti tra i periodi orbitali resteranno invariati ma le interazioni reciproche tra i pianeti nonché l'ampiezza delle risonanze varieranno fino a portare Giove e Saturno in una risonanza 5:2. Una situazione che, tuttavia, non è sostenibile anche a causa dell'esposizione a perturbazioni indotte dal passaggio di altre stelle. Gli incontri con altre stelleperturbano i pianeti innescando una instabilità su larga scala che culmina con l'espulsione di tutti i pianeti tranne uno, Giove. Tutto questo dovrebbe avvenire in circa 30-40 miliardi di anni, mentre l'ultimo baluardo (Giove appunto) potrebbe resistere ulteriori 50 miliardi di anni, fino a un nuovo sorvolo stellare, fenomeni che dovrebbero verificarsi al ritmo di un passaggio ogni 20 milioni di anni. Saranno queste le uniche perturbazioni subite da Giove, la cui eccentricità andrà sempre più aumentando. Tutto questo si basa su dieci simulazioni appena ma ciascuna di esse ha prodotto risultati simili, con espulsione dei giganti gassosi entro un miliardo di anni dopo la fine della perdita di massa da parte del Sole. Anche la Via Lattea, nel frattempo, varia e questo può alterare il quadro tracciato visto che il Sistema Solare può subire un processo di migrazione radiale attraverso la Galassia, con incontri con zone a diversa densità stellare (Jon K. Zink et al. The Great Inequality and the Dynamical Disintegration of the Outer Solar System, The Astronomical Journal - 2020).
Ultimo aggiornamento del: 02/12/2020 22:34:36